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Economia prima delle alleanze. Il viaggio in Cina di Meloni visto da Jean

Il viaggio della presidente del Consiglio italiano in Cina riflette la scelta di dare importanza all’economia rispetto alla geopolitica nei rapporti del sistema internazionale odierno. Eppure così non è per i grandi attori. Il commento del generale Carlo Jean

La visita della premier italiana in Cina è stata apparentemente centrata sulle relazioni economico-commerciali con la Cina, in particolare sul consistente divario (oltre 40 mld di $ all’anno a danno dell’Italia) fra l’import e l’export. I rapporti con la Cina sono però importanti più nel medio-lungo periodo, e la collaborazione economica è meno importante di quella con i Paesi dell’Ue e degli Usa. Oggi, l’export italiano verso Pechino non supera quello verso la Svizzera. I colloqui hanno riguardato le collaborazioni industriali nel campo degli investimenti, dell’IA, delle auto elettriche e delle energie rinnovabili.

L’economia ha nettamente prevalso sulla geopolitica. Il settore strategicamente più delicato nei vitali rapporti con gli altri partners occidentali, specie con gli Usa, è quello dell’IA, tipicamente duale, ad utilizzo sia militare che civile. In esso la Cina presenta vantaggi, dato che non ne subordina l’utilizzo al rispetto dei diritti umani, previsto invece in Occidente, che penalizza così talune ricerche e utilizzazioni. Con gli accordi con la Cina nell’AI, il governo italiano dovrà rafforzare il suo sistema di controlli tecnologici nel settore, per non essere penalizzato nelle collaborazioni occidentali.

La visita è stata molto positiva. Ha normalizzato le relazioni con la seconda economia mondiale, bilanciando le analoghe iniziative francesi e tedesche. Molti temevano che i nostri rapporti con Pechino fossero stati compromessi dal mancato rinnovo del “Memorandum d’Intesa sulla Nuova Via della Seta”, imprudentemente (è un eufemismo!) firmata dall’Italia nel 2019. Da esso non era derivato all’Italia alcun vantaggio, ma solo danni, data la finalità geopolitica che il progetto aveva a favore delle ambizioni globali di più che economica del grande progetto per le ambizioni globali di Pechino.

Taluni hanno criticato gli accordi triennali firmati dall’Italia durante la visita, rimproverando il governo di non averli subordinati a corrette pratiche commerciali,  a un impegno, almeno formale, cinese di cessare il sostegno a Mosca nella sua aggressione all’Ucraina, di non giocare un ruolo attivo per la pace e di non fare qualche “predica” sul rispetto dei diritti umani o all’ambizione cinese di un nuovo ordine multipolare con la fine del blocco delle democrazie contro quello delle autocrazie. L’approccio italiano è stato pragmatico. Ha tenuto conto del “peso”  reale dell’Italia, che determina l’interesse nazionale italiano, indipendente dalla fedeltà dalle scelte di campo europea e atlantica del nostro Paese.

La questione merita un commento. Indubbiamente, nella nuova competizione globale fra gli Usa e la Cina – o, se vogliamo nella nuova guerra fredda – è scomparsa quasi completamente la subordinazione dell’economia alla geopolitica, dominante nella “guerra fredda”. La prima è divenuta determinante come in quest’ultima era la potenza militare. Ma questo vale solo per le grandi potenze o nelle alleanze organiche, in cui è minima la competizione economica fra i membri. Non è il caso dell’Ue. Per una media potenza come l’Italia – che deve finanziare un enorme debito e che dipende economicamente e tecnologicamente dall’Occidente e dall’avanzo commerciale che ha con esso – non sono possibili molti “voli pindarici”. La limitazione all’economia è stata determinante per il successo della visita e ha contribuito a superare il pasticcio in cui ci eravamo ficcati, aderendo al progetto della Via della Seta, che era geopolitico, funzionale alle ambizioni cinesi e solo marginalmente geo-economico. Ha aiutato anche il ricordo di Marco Polo e di Matteo Ricci, ponti fra la Cina e l’Occidente ed estimatori della grandezza del Celeste Impero, a cui i cinesi sono particolarmente sensibili.

Beninteso le questioni politico-strategiche non potevano essere del tutto ignorate. Sono state caratterizzate da entrambe le parti dall’imprevedibilità di quanto Donald Trump farà – soprattutto in Ucraina e nei riguardi di Mosca. Il candidato presidente Usa è ormai il costante “convitato di pietra” in ogni colloquio internazionale: dall’apertura di Volodymyr Zelensky alla possibilità di negoziato con Vladimir Putin alla visita a Pechino del suo ministro degli esteri Dmitro Kuleba, ecc. Esamineremo l’argomento, pur nella consapevolezza che esso sia stato solo marginale e informale nella visita in Cina di Giorgia Meloni.

Per “dovere d’ufficio” – cioè per valorizzare l’importanza mondiale di Pechino – la delegazione italiana deve aver auspicato che Pechino, con  le sue capacità di pressione su Mosca, promuova seri negoziati di tregua o di pace per l’Ucraina, seri nel senso di non subordinarne l’inizio alle condizioni inaccettabili previste dal piano di non subordinarne l’inizio alle condizioni del “Piano Putin'” che comporta in pratica preventiva resa ucraina e la sua rinuncia a ogni efficace garanzia che possa renderla duratura.

Per inciso, il richiamo di Putin a ripartire nei negoziati dagli accordi di Istanbul del marzo/aprile 2022 è una presa in giro, a cui possono credere acriticamente solo i lettori del Foglio o di Topolino. Il premier israeliano Benett, allora mediatore come Erdogan, ha affermato di aver visto una dozzina di bozze d’accordo, contraddittorie fra loro. Secondo gli studi di Foreign Affairs e del New York Times, gli ultimi ad essere sottoposti alla controparte russa o ucraina sono del 5 e del 15 aprile 2022, molto diversi anche in punti chiave, quali le garanzie di sicurezza da prevedere per quanto restava dell’Ucraina. Credere che gli ucraini abbiano continuato a combattere perché i “bellicisti” occidentali avevano deciso d’indebolire “la Russia fino all’ultimo ucraino” è una “balla” della propaganda del Cremlino, volta a persuadere i “gonzi” che la guerra sia stata scatenata dall’Occidente, non dalla Russia.

Su cosa farà Trump grava una profonda incertezza. Le dichiarazioni che ha fatto sull’Ucraina sono contraddittorie.  La questione è complicata dai legani esistenti fra la politica seguita in Ucraina e la credibilità globale degli Usa anche nei confronti dell’Indo-Pacifico e della Cina. Molti suoi sostenitori affermano che “Make America Great Again” è incompatibile con il “Make America Alone”. Mike Pompeo, suo possibile Segretario di Stato, ha anticipato al Wall Street Journal quelle che a parer suo saranno le linee guida del Pace per l’Ucraina: proposta a Putin di ritirarsi dall’Ucraina entro tre settimane, eccetto dalla Crimea e da gran parte del Donbas, e accesso dell’Ucraina alla Nato e all’Ue; qualora il Cremlino non accettasse, attivazione di un Lend-Lease a Kyiv per 410 mld $, un transfer delle armi Usa più moderne e autorizzazione a impiegarle su tutto il territorio russo. Pompeo giustifica l’escalation con la necessità di Trump di non “perdere la faccia”, ristabilendo la credibilità della dissuasione, soprattutto per Taiwan, e della leadership Usa nel mondo dopo le cautele e la timidezza di Biden che si è limitato a dare agli ucraini i mezzi per resistere, senza provocare i russi, ma non quelli per vincere e finire la guerra.

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