Giorgia Meloni nella sua lettera ai dirigenti del partito esprime un giudizio senza possibilità d’appello nei confronti di coloro che hanno indugiato in gesti, parole e comportamenti che poco hanno a che vedere con un movimento che “fin dalla sua fondazione” aveva fatto “la scelta di aprirsi a culture politiche compatibili” con quella di coloro che avevano già “fatto i conti con il passato e con il ventennio fascista”. Un po’ come accadde quando Togliatti, nel 1946, sconfessò la linea dei gruppi armati del Pci, appoggiati da Pietro Secchia. La riflessione di Gianfranco Polillo
La lunga lettera di Giorgia Meloni ai dirigenti del suo partito, per rispondere al video di Fanpage merita una lettura più approfondita. Non un’esegesi del testo, ma nemmeno una scrollatina di spalle. Come dire? Roba scontata. Prima, tuttavia, è bene dire qualcosa su quel video. Presentato come un’inchiesta dai curatori, a seguito di un rocambolesco intervento nel ventre dell’organizzazione giovanile di Fratelli d’Italia. Ebbene, fermo restante la gravità di alcuni comportamenti, il risultato non ci ha convinto.
Un’inchiesta è un’inchiesta. Presuppone elementi che nello schema fornito dagli interessati sono del tutto assenti. A partire dal tentativo di cifrare la rilevanza del fenomeno. Quegli episodi denunciati dalle telecamere nascoste erano il dato esponenziale di comportamenti diffusi e generalizzati? Oppure si tratta di un fenomeno limitato e circoscritto in alcuni ambienti? Domanda che resta senza risposte.
Peccato perché le differenze, nei due casi, sono rilevanti. Nel primo ci troveremmo di fronte a fenomeni preoccupanti. Nel secondo a contraddizioni interne ad un movimento – quello di Fratelli d’Italia – che ha l’ambizione di voler essere altro. E muoversi in una logica che ha ben poco a che fare con nostalgie novecentesche. Fermo rimanendo il fatto che un’interpretazione meno ideologica di quel periodo dovrebbe ancora essere il compito di una storiografia meno militante.
Nella lettera, Giorgia Meloni si assume la responsabilità di avallare questa seconda interpretazione. E non è poco. “Non c’è spazio – afferma – tra le nostre fila per chi recita un copione macchiettistico utile solo al racconto che i nostri avversari vogliono fare di noi”. Giudizio senza possibilità d’appello nei confronti di coloro che hanno indugiato in gesti, parole e comportamenti che poco hanno a che vedere con un movimento che “fin dalla sua fondazione” aveva fatto “la scelta di aprirsi a culture politiche compatibili” con quella di coloro che avevano già “fatto i conti con il passato e con il ventennio fascista”.
Non contenta di ciò, la leader di Fratelli d’Italia ricorda poi le tappe principali di quel lungo percorso. L’adesione “con totale convinzione alla risoluzione del Parlamento europeo” del 2019 in cui “si condannavano senza esitazione tutte le dittature del ‘900 (nazismo, comunismo e fascismo)”. Il precedente congresso nazionale di Trieste, nel 2017, in cui era stato deciso di andare anche oltre la “destra italiana” per fondare il “movimento dei patrioti”. Qualcosa quindi che rivitalizzava le radici del Risorgimento, come tratto fondante la storia nazionale.
Per giungere infine ad enucleare i principi ispiratori della futura azione politica: dal “merito che viene prima della tessera di partito” ai “doveri che non sono scissi dai diritti”, dalla “libertà che ha bisogno di responsabilità” al “valore che ha bisogno di essere dimostrato e non si guadagna per semplice discendenza”, per non parlare, infine, “dell’interesse nazionale che viene prima di quello di parte”.
Va bene che, come insegnava il grande Eduardo De Filippo, “gli esami non finiscono mai”; ma c’è forse traccia di fascismo in questi enunciati? Al contrario, essi sembrano piuttosto far parte di una buona pedagogia, degna di un Paese civile com’è e come dovrebbe essere l’Italia. Ma, allora, – questa la domanda – come giustificare quelle riprese in cui si inneggiava al fascismo o all’antisemitismo?
Riprese, ovviamente, veritiere, seppure espressione di un piccolo mondo, che ha poco a che vedere con il complesso dei rappresentati. Vale a dire di coloro che hanno votato, in più occasioni, per quel partito. Chi conosce la storia d’Italia, sa benissimo che la convivenza, pur difficile, tra piccoli gruppi iper-ideologizzatati e l’assoluta maggioranza dei militati, per non parlare degli elettori, più che un’eccezione è stata una costante. Basti pensare alle BR. Ed al loro retroterra con con il mondo cattolico o quello comunista. O, sul fronte opposto, ai NAR, in quegli stessi anni di piombo.
Qualcosa di simile accadde anche nell’immediato dopoguerra, quando si registrò un’analoga commistione, destinata a generare un conflitto profondo tra i massimi dirigenti del PCI. Da un lato Palmiro Togliatti, dall’altro Pietro Secchia che del partito era vice – segretario e responsabile dell’organizzazione. In capo al primo una linea prudente, nel solco degli accordi di Yalta. Al secondo, capo del cosiddetto “parapartito”composto dai nuclei armati degli ex partigiani, l’idea di voler fare come la Russia. Trasformando la lotta di liberazione in quella per il comunismo.
Quei nuclei operavano principalmente in alcune zone dell’Emilia e della Romagna, dove all’indomani della Liberazione erano continuati gli eccidi ed i mille episodi di guerra civile, che furono comunque un capitolo importante della Resistenza. In quel caso non si trattava di inneggiare al Duce o sollevare il braccio nel saluto romano. C’erano, invece, le uccisioni, le esecuzioni brutali dei propri nemici. Che poi questi fossero stati fascisti, padroni o semplici avversari personali era del tutto secondario.
Per battere quella linea politica, che rischiava di compromettere la strategia del partito, Togliatti fu costretto a scendere in campo, recandosi personalmente nella tana del lupo. Il 24 settembre del 1946 si presentò pertanto a Reggio Emilia dove pronunciò quel famoso discorso che passerà alla storia con il titolo “la questione dei ceti medi”.
In apparenza un testo quasi sociologico, nei fatti la sconfessione di quei gruppi armati che, in nome del partito, si muovevano fuori dal perimetro delle regole democratiche. E che fino ad allora avevano potuto operare grazie alla protezione di Pietro Secchia, che tuttavia conservò ogni carica fino al 1954, quando, finalmente, fu estromesso e responsabile dell’organizzazione divenne Giorgio Amendola, che esprimeva una linea del tutto antitetica.
“Non proponiamo una ricostruzione della nostra economia secondo princìpi comunisti o socialisti”. – aveva detto con enfasi Togliatti nel corso di quella riunione – “Noi diciamo che occorre un “nuovo corso” di economia e di politica economica. Ci si accusa di voler sopprimere l’iniziativa privata, ma la cosa non è vera. Noi vogliamo che venga lasciato un ampio campo allo sviluppo dell’iniziativa privata, soprattutto del piccolo e medio imprenditore.” Erano i principi della cosiddetta “via italiana al socialismo”.
La sconfessione più netta di qualsiasi ipotesi rivoluzionaria, ma anche la riconciliazione con quel mondo più vasto che vedeva nella Liberazione l’inizio di una nuova era. Se la storia è ancora magistra vitae, una meditazione su questi fatti lontani, eppure così vicini, sarebbe utile. Ai vecchi militanti va tutta la riconoscenza per il contributo offerto nei momenti più bui e difficili della vita del partito. Ma se si crede veramente che “l’interesse nazionale” debba venire “prima di quello di parte”, allora bisogna essere conseguenti.