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Harris-Netanyahu, la linea Usa su Israele. Equilibri e tensioni da DC a Parigi

Le critiche contro Netanyahu passano dalle contestazioni politico-istituzionali a quelle di piazza, dove potrebbero esserci progetti di interferenza opera di nemici di Israele e più in generale dell’Occidente. Il premier vede la candidata democratica Harris e il presidente uscente Biden in attesa di un incontro con Trump

Si evocano scenari macabri, storici, quanto meno nel pensiero di chi sente Israele chiedere alla Francia di alzare al massimo il livello di protezione sugli atleti ebraici durante le Olimpiadi di Parigi, che verranno inaugurate oggi. Con le minacce composite diffuse da gruppi armati, a iniziare dallo Stato islamico, il clima è teso: la stagione di guerra nella Striscia di Gaza — aperta dal macabro attentato di Hamas il 7 ottobre scorso — è ancora in corso. E anzi, mentre i negoziati procedono e resta l’ottimismo per un qualche genere di cessate il fuoco (c’è una crisi umanitaria, ci sono già state quasi 40 mila vittime, ci sono dozzine di persone rapite dai palestinesi che dovrebbero essere rilasciate), pragmatismo vuole che si analizzi la situazione con distacco.

Attualmente, né Hamas (ed eventuali dante causa), né Israele potrebbero avere interesse a concludere il conflitto. I primi sanno, cinicamente, che più vanno avanti gli scontri e più il governo di Benjamin Netanyahu verrà criticato per la continuazione della guerra — per i danni collaterali, per le immagini dei bambini gazawi uccisi sotto le macerie — e questo perché il destino del primo ministro è molto complicato, forse legato proprio a quella continuazione della guerra. Netanyahu, che fonti spiegano “ha perso quella capacità politica unica che l’ha sempre fatto essere la persona più interessante nella stanza”, sa dal canto suo che per mantenere smalto e consenso deve effettivamente arrivare quanto più vicino possibile all’ambiziosa promessa con cui l’8 ottobre ha iniziato la guerra: obliterare Hamas — missione quasi impossibile, fatta sull’onda emotiva del momento ma anche sul calcolo politico che una nazione in guerra si stringe attorno al suo leader.

E all’inizio forse è stato anche così, ma dopo quasi dieci mesi i segnali di stanchezza sono molti. Netanyahu è contestato, il suo governo oggetto di critiche e attacchi, Israele rischia un danno di immagine infinito. Si veda il passaggio del presidente Isaac Herzog in Italia, il quale ha ricevuto sostegno istituzionale formale dal Quirinale e dall’esecutivo, ma anche polemiche da parte delle opposizioni (con qualcuno anche della maggioranza che, nonostante la posizione ufficiale, privatamente inizia a filtrare qualche malumore). Si veda inoltre la visita di Netanyahu a DC.

Da qui: senza la postura formale della candidatura, Joe Biden — che ha ospitato giovedì Netanyahu nello Studio Ovale da cui mercoledì aveva spiegato le ragioni del ritiro storico dalla corsa presidenziale — potrebbe scegliere un tono più duro. Finora, a parte qualche scelta simbolica, la sua amministrazione ha sostanzialmente sostenuto il diritto all’auto difesa israeliano (ossia il diritto alla guerra contro Hamas), ma qualcosa potrebbe cambiare in questi prossimi sei mesi che porteranno Biden a fine mandato. Il presidente uscente vuole, per eredità politica (e per i Democratici, forse), ottenere un risultato: e per questo dopo aver parlato con il premier israeliano dice che un accordo “è vicino come mai prima” — sebbene ormai si parli solo della prima fase della road map su cui lo stesso presidente americano ha messo il suo peso diplomatico, cessate il fuoco e rilascio di 33 ostaggi.

Tra i rapiti ci sono anche diversi cittadini americani, che pressano l’amministrazione e che accusano (live, senza troppi mezzi termini) Netanyahu di non fare abbastanza per un accordo — “slow-walking negotiations on the deal”, dicono le otto famiglie scelte per spettacolarizzare con la sensibilizzazione emotiva parte dell’incontro tra i due leader, tanto quanto per pressare Bibi, sebbene anche quelle adesso si dicano anche più ottimiste (ed è pure parte della narrazione organizzata dall’amministrazione, che vuole consegnare a Biden il ruolo di deal-broker). Gli ostaggi sono anche un tema politico dunque, che i congressisti democratici hanno usato per un attacco silenzioso all’israeliano durante il suo intervento al Congresso di due giorni fa. In quell’occasione, causa impegni precedenti legati alla campagna elettorale, non c’era la vicepresidente Kamala Harris (candidata in pectore e leader al Senato), che ha avuto comunque l’occasione di un faccia a faccia personale con Netanyahu — separato da quello di Biden, anche per dare senso di presente e futuro, ed era questo che l’israeliano ha cercato di capire nei suoi giorni americani, anche considerando che oggi incontrerà Donald Trump a Mar-a-Lago.

Harris, al di là delle sciocchezze di Trump che l’accusa di “essere contro il popolo ebreo”, ma lei ha un marito ebreo e forse dirigerà il pick per il vice sull’ebreo governatore della Pennsylvania Josh Shapiro, potrebbe avere una linea ancora più severa con Netanyahu. Rivendica anche lei il diritto di auto difesa di Israele, ma evidenzia che conta anche “il modo” in cui Israele agisce, e sulla base di questo — ricordando le iniziative pro-israeliane fatte da giovane — annuncia di aver espresso “seria preoccupazione” a Netanyahu per la “morte di troppi civili innocenti”: “È tempo che questa guerra finisca in un modo in cui Israele è sicuro, tutti gli ostaggi siano rilasciati, la sofferenza dei palestinesi a Gaza finisca e il popolo palestinese possa esercitare il suo diritto alla libertà, alla dignità e all’autodeterminazione”,

C’è poi stato un passaggio durante l’incontro con i giornalisti che ha indispettito Netanyahu: “Facciamo l’accordo – dice Harris – così possiamo ottenere un cessate il fuoco per porre fine alla guerra. Portiamo a casa gli ostaggi”. Il punto è nel “porre fine alla guerra”, che come anticipato è l’elemento che Netanyahu teme: un cessate il fuoco per l’israeliano ha solo valore di pausa tecnica, perché intende finire il lavoro con Hamas, e ha paura che invece venga usato a livello politico-diplomatico come scusa per pressare verso il fermare del tutto i combattimenti — che implicitamente significa riconoscere un ruolo futuro di Hamas, dunque una qualche sua esistenza. Netanyahu è preoccupato che certe espressioni pubbliche, non solo vadano contro le sue promesse, ma più nel breve termine possano alterare il piano del dialogo.

Il fatto è anche che certe considerazioni possono aprire spazio, seppure in una percezione indiretta, per altre critiche a Netanyahu come continuatore della guerra e aumentare le tensioni – per Harris, che deve gestire anche la constituency puù leftist, sono una necessità. Quanto successo negli Stati Uniti — le bandiere bruciate, le scritte “Hamas sta arrivando”, le contestazioni contro la presenza di Netanyahu — sono azioni complesse. Per l’intelligence potrebbe esserci anche una regia iraniana che ha infiammato componenti socio-politiche e culturali già ideologizzate. Harris le ha fortemente accusate di produrre “una pericolosa retorica carica d’odio”, sottolineando che negli Stati Uniti non ci sarà mai spazio per chi inneggia a Hamas (“una brutale organizzazione terroristica votata alla distruzione dello stato di Israele e a uccidere gli ebrei”, frase da aggiungere se servisse altro per smentire Trump, sport olimpico).

E si torna al punto di partenza: contro Israele si muovono interessi internazionali che mirano anche all’anti-americanismo e anti-occidentalismo. Certo, pesa anche la percezione negativa del governo Netanyahu, ma vi si aggiungo le azioni di interferenza degli attori rivali e alcuni interessi politici a prendere posizioni severe (che possono poi essere travisati ed esasperati). È questo che crea problematiche di sicurezza a Parigi come la destabilizzazione del Mar Rosso, in un continuum che propaga sul piano internazionale gli effetti della guerra di Gaza. Mentre questa analisi va in pubblicazione, il ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz, scrive su X che il sabotaggi odierno delle linee ferroviarie francesi è stato pianificato ed eseguito “sotto l’influenza dell’asse della resistenza iraniana”, l’insieme di gruppi radicali sciiti come Hezbollah (ma anche i sunniti palestinesi come Hamas e Jiahd islamica) che secondo le informazioni in mano a Israele progetta attentati contro i propri atleti. “Il mondo libero deve fermare l’Iran. Prima che sia troppo tardi”, dice il ministro. Intanto i francesi hanno arrestato un russo.

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