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Iran, vince il riformatore Pezeshkian. Khamenei non si dispiace

Il candidato riformatore Pezeshkian potrebbe essere molto utile alla Guida suprema. Per Khamenei c’è da gestire la sua successione, e serve equilibrio interno (e dare all’esterno un’immagine accettabile per evitare interferenze)

In Iran ha vinto Massoud Pezeshkian, cardiochirurgo appartenente al fronte dei riformatori (che, va detto subito, non significa che Teheran abbia eletto a presiedente John Stuart Mill). Ha battuto con il 53,3%, corrispondente a circa 16,3 milioni di voti, il candidato conservatore Saeed Jalili, che invece ha preso 13,5 milioni di voti (44%).

La leadership iraniana ci teneva che l’affluenza fosse “presentabile”, come dice una fonte locale che vuole evitare di essere nominata: alla fine è stata di dieci punti percentuali superiore al primo turno (quando fu la più bassa della storia), in parte anche grazie al prolungamento di quattro ore dell’apertura dei seggi: “Volevano che non fosse bassa come quella del primo turno, perché toglieva senso al concetto di Repubblica, ma nemmeno che fosse un’ondata, perché temevano che quello avrebbe significato o la mobilitazione in massa dell’opposizione, oppure la forzatura da parte dei conservatori: processi entrambi non voluti”. Quel 50% era un obiettivo, perché superava leggermente quella del 2021 (47%) e serviva a dare legittimità al voto, affinché, qualsiasi fosse stato il fronte vincitore, il risultato non avesse innescato malumori e manifestazioni.

Perché sono quelle che la Guida Suprema Ali Khamenei teme maggiormente. Ed per questo che il ritorno alla presidenza di un riformatore potrebbe essere non malvisto dalla leadership (lo avevamo anticipato). Tra l’altro, Khamenei ne condivide le radici azere, fattore non secondario, viste le sensibilità (anche securitarie) collegate alla minoranza.

La realtà è anche che la presidenza di Ebrahim Raisi, morto in un incidente aereo il 19 maggio (vicenda che ha richiesto questo voto anticipato), nascondeva buona parte delle divisioni del fronte conservatore sotto al tappeto del potere. Ma i conservatori invece si erano già presentati divisi al primo turno, e con il ballottaggio hanno dimostrato tutta la profondità delle frammentazioni — tali da non ricomporsi al voto decisivo, accettando di fatto il rischio di perdere, e addirittura con gli uomini dell’altro sfidante escluso dalla corsa a due, Mohammad Bagher Ghalibaf, che avrebbero suggerito di non votare Jalili ma Pezeshkian.

I riformatori non stanno meglio, ma intanto incassano un’inattesa vittoria. Pezeshkian era stato l’unico di quell’ipotetico fronte (altrettanto spacchettato) ammesso alla corsa elettorale dal Consiglio dei guardiani, organo teocratico che filtra i candidati (rendendo tutte le elezioni nella Repubblica islamica una concessione controllata dalla teocrazia). La sua figura non accontentava a fondo gli elettori riformisti, ma era accettabile per Khamenei, ché aveva più volte ribadito la sua totale fede nella Guida, e ché non era così famoso da infiammare le piazze.

Tuttavia, è evidente che lo scontento nei confronti del regime e del sistema di potere, guidato dai Pasdaran, che lo sta ulteriormente inasprendo, estremizzando e isolando, è profondo. Sì pensava che gli elettori che sognano un Iran diverso, libero non avrebbero votato perché insoddisfatti e disarmati: in parte è stato così, ma in parte chi ha votato ha comunque mostrato l’inclinazione del Paese verso il cambiamento — e all’insoddisfazione partecipa anche l’elettorato conservatore.

Servisse scommettere i fatidici two cents, il cambiamento non ci sarà, non almeno nei termini con cui lo immaginano diversi iraniani o come possiamo percepirlo noi dall’Occidente. Pezeshkian ha vinto perché, almeno all’inizio del suo mandato, confermerà sia la linea di politica interna che quella di politica estera di Teheran. Pur con sfumature più accettabili — soprattutto in ambito economico, anche perché alcune riforme sono necessarie, dato che il Paese soffre una costante erosione delle condizioni di vita, e la Guida ne è consapevole (l’inflazione per esempio è stato tra i temi centrali della campagna elettorale).

Questo è uno dei punti per cui Khamenei guarda alla vittoria del riformatore con pragmatico interesse (non soddisfazione, ma nemmeno totale ostilità, e non solo per necessità di convivenza). La leadership teme che il campo riformista possa diventare una sorta di partito di opposizione compatto, in grado di mobilitare le folle e sfruttare bene le proteste popolari (come quelle del 2017, 2019, 2022 e 2023) come piattaforma elettorale. E teme che gli effetti di questo si ripercuotano sul sistema, fino a toccare il tema dei temi: la successione della Guida. Con Pezeshkian al governo questo è più difficile, perché il presidente per amministrare deve accettare una lista di compromessi che non piaceranno a buona parte del suo elettorato ipotetico — che è molto più ampio di quello reale e che, come detto, ha scelto di non votare.

Poi c’è un altro problema: il conservatorismo in Iran si sta estremizzando, frutto delle visioni ultra radicali delle terza generazione post-Rivoluzione. Questo potrebbe sbilanciare la teocrazia stessa, che soffre la presenza di questa componente, molto legato al settore militare (difesa e sicurezza) e ai Pasdaran (definitivamente stato-nello-stato). E la soffre anche perché complica tanti gli equilibri interni quanto l’immagine internazionale dell’Iran. A maggior ragione, la presidenza in mano a un candidato di tale fazione come Jalili avrebbe complicato anche dinamiche sensibili dal valore tattico-strategico come quelle con Israele, sempre più tese per via dell’apertura del fronte libanese che coinvolge Hezbollah bella guerra di Gaza, e di conseguenza con il Golfo,  e poi con l’Occidente, soprattutto con gli Stati Uniti — a maggior ragione se alla Casa Bianca a novembre dovesse tornarci Donald Trump.

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