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Israele elimina Haniyeh. Cosa significa l’uccisione del leader di Hamas

Haniyeh

Il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, è stato ucciso a Teheran, eliminato da un probabile raid israeliano. Gli effetti saranno ampi, peseranno sugli equilibri regionali e coinvolgeranno l’intero Asse della Resistenza guidato dai Pasdaran

Il capo del Politburo di Hamas, Ismail Haniyeh, è stato ucciso in un missione di estrema precisione, probabilmente israeliano, a Teheran, dove il leader palestinese si trovava per festeggiare l’inaugurazione del nuovo presidente iraniano, Masoud Pezeshkian — evento durante il quale, ieri pomeriggio, il parlamento (il Majles) è esploso in un “morte all’America” e “morte a Israele” cantato direttamente dai deputati sugli scranni. Questo dettaglio apparentemente di colore serve per delineare il contesto: quei canti sono avvenuti prima dell’eliminazione di Haniyeh, ora c’è da aspettarsi che l’Iran risponda per l’enorme colpo subito.

Uccidere il capo del comparto politico di Hamas — che ha fatto l’annuncio e subito incolpato Israele — mentre si trovava nella capitale della Repubblica islamica è un’operazione clamorosa. Formidabile sul quadro tecnico e logistico (sebbene ancora non se ne conoscano le dinamiche, solo che sia stato colpito con un missile l’appartamento in cui dormiva, alle due di notte); devastante su quello simbolico e strategico. Significa che l’Iran non è un posto sicuro, e dunque quelle milizie come Hamas e il cosiddetto Asse della Resistenza non hanno sicurezze nemmeno nel cuore del loro sistema di finanziamento e soprattutto protezione internazionale.

L’effetto di quanto accaduto ricadrà su Hezbollah in Libano (di cui, nelle stesse ore, è stato ucciso il comandante senior Fuad Shukr, altea cosa importantissima), sugli Houthi yemeniti, sui vari gruppi e sottogruppi armati sciiiti iracheni, sulle brigate afghane Fatemiyoun e sulle Zainabiyoun pakistane. Tutte adesso saranno mobilitate dal dante causa iraniano — che risiede soprattutto nel corpo militare, politico, economico e sociale teocratico, giornalisticamente noto come “Pasdaran”. Teheran deve rispondere al durissimo colpo, e nel farlo dovrà scaricare la sua ira, con il principale obiettivo di rassicurare quel network di affiliati. Perché a quei gruppi politici-armati con cui i Pasdaran proiettano oggi influenza geopolitica nella regione va dimostrato — con narrazione e fatti — che la Repubblica islamica può rispondere all’aggressione dell’odiato nemico ebraico.

Nel racconto propagandistico del regime l’eliminazione di Haniyeh verrà descritta come un affronto, una dichiarazione di guerra (anche perché difficilmente Israele la rivendicherà direttamente, a meno che non voglia effetti ancora più ampi); sarà narrata come un’opera non solo di Israele ma di altri protettori occidentali; e chiaramente su tutti la colpa verrà fatta ricadere sugli Stati Uniti, che per altro dovranno gestire la situazione a loro volta. Se è vero che un’ampia maggioranza dei cittadini iraniani userà la vicenda come dimostrazione ulteriore che il regime non è più in grado di difendere il proprio territorio, e dunque per confermare la linea critica che dura da anni, ce ne sarà un’altra più ideologizzata che si indignerà, Su quella, che teoricamente non coincide perfettamente con la base del consenso del riformatore Pezeshkian, il regime farà leva per la risposta.

La gestione di Washington accennata sarà complessa. Non riguarda gli equilibri interni iraniani, almeno non totalmente e non esclusivamente. La Casa Bianca una settimana fa ha ospitato Benjamin Netanyahu, e tra i vari incontri è possibile che si sia anche parlato del piano per eliminare Haniyeh. Quanto meno è possibile che la Cia sia stata in qualche modo infoemata dell’azione — che abbia contribuito o avallato è meno importante di un eventuale mancato avviso. Per gli americani la gestione del fall-out (che sarà ampio) avrà più direttrici.

Innanzitutto potrebbero saltare in negoziati, come quello di Roma, condotti con Egitto e Qatar per far raggiungere un cessate il fuoco, dunque il rilascio degli ostaggi rapiti da Hamas il 7 ottobre — quando il gruppo terroristico palestinese aggredì Israele e diede inizio all’attuale stagione di guerra. Poi dovrà essere alzata al massimo la sicurezza delle strutture militari in Medio Oriente, dato che nella reazione dell’Asse della Resistenza anche le basi americane potrebbero tornare tra i target — questo dell’alzare le misure di sicurezza è un problema che per altro sarà condiviso anche dagli alleati dello stato ebraico nel resto del mondo, a cominciare dall’Europa, perché lupi solitari o cellule più organizzate potrebbero colpire ovunque interessi israeliani o cittadini ebrei. Inoltre, Washington dovrà gestire i rapporti con i partner regionali (per esempio: cosa ne pensa l’Arabia Saudita, con cui gli Usa vorrebbero una normalizzazione dei rapporti diplomatici di Israele? E cosa dice il Qatar, non-Nato ally e principale alleato militare arabo americano, che ha protetto l’ala politica di Hamas e dato per anni una casa sicura a Haniyeh?). Infine, ci sarà da assorbire critiche e considerazioni, anche in sede Onu, da parte di Russia e Cina, partner iraniane e in questa fase molto critiche con Israele — anche per essere critiche con gli Usa.

Quanto accaduto non avrà dunque un effetto limitato al campo di battaglia nella Striscia di Gaza. Israele ha reso un incubo il primo giorno da presidente di Pezeshkain, dimostrando ancora una volta che può essere capace di colpire ovunque, anche durante uno dei più intimi momenti della vita socio-politica della Repubblica islamica. Netanyahu incassa un successo, eliminando l’Asse di Quadri della lista dei leader nemici e in qualche modo responsabili del 7 ottobre (di cui quel giorno Haniyeh seguiva in televisione le notizie come racconta un celebre video, in cui pregava e sorrideva per il coraggio degli attentatori palestinesi, mentre passavano le immagini della devastazione che aveva prodotto oltre mille morti e quelle tragiche dei rapiti). Per il primo ministro israeliano ci sarà adesso da gestire gli effetti, partendo innanzitutto dall’interno, dalla reazione nel West Bank e tra gli arabi-israeliani.

Difficile pensare che quanto accaduto possa invece fermare tutto, fare da game changer, dare la vittoria totale a Israele — nonostante la dimostrazione di supremazia. Più probabile l’aumento della tensione verso il punto di non ritorno: la guerra regionale.

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