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Italia-Cina, cosa è cambiato con l’uscita dalla Bri. L’analisi di Fasulo

Le relazioni tra Roma e Pechino sono state normalizzate dalla de-politicizzazione conseguente al non rinnovo del memorandum sulla Bri. Un contesto di cui Meloni tiene conto nel suo viaggio, mentre l’Italia prepara accordi con la Cina sulla mobilità elettrica. Conversazione con Filippo Fasulo, co-head del Geoeconomics Centre dell’Ispi ed esperto dei rapporti Italia-Cina

“L’uscita dell’Italia dalla Belt and Road Initiative (Bri) ha aperto una nuova fase in cui le relazioni tra Roma e Pechino sono state generalmente de-politicizzate pur mantenendo un profilo elevato”, spiega Filippo Fasulo, co-head del Geoeconomics Centre dell’Ispi ed esperto dei rapporti Italia-Cina. Secondo la sua analisi, le prime manifestazioni pratiche di questo processo di normalizzazione si sono già viste nei primi mesi di quest’anno: ed è questo il perimetro delle relazioni che Giorgia Meloni si troverà ad affrontare quando tra una settimana incontrerà il leader cinese Xi Jinping.

Da un lato, “è necessario gestire le relazioni commerciali (anche attraverso il dialogo politico) in una fase di particolare attenzione alla ridefinizione globale delle catene del valore e, in generale, alla globalizzazione”, aggiunge Fasulo. A Verona, il Forum Affari e Dialogo tra i due Paesi di aprile ha per esempio gettato le basi per questa nuova forma di relazione, concretizzando gli incontri di alto livello in programma per la seconda metà dell’anno, vale a dire la visita di Meloni prossima ventura e quella del presidente della Repubblica Sergio Mattarella — che dovrebbe arrivare in autunno.

“D’altra parte, l’Italia, in quanto presidente a rotazione del G7, condivide le preoccupazioni con gli alleati sulla proiezione estera della Cina. A questo proposito, l’impegno strategico italiano nel quadrante Indo Pacifico (attraverso la partecipazione a esercitazioni navali come vediamo in questi stessi giorni) dovrebbe essere evidenziato, in quanto segnala la solidarietà politica di Roma con il campo occidentale e testimonia la vicinanza alle preoccupazioni di sicurezza degli attori regionali”, aggiunge l’esperto dell’Ispi.

È dunque una questione di equilibri: da una parte la necessità di far progredire le relazioni commerciali, pur considerando che l’Italia con l’Ue sta andando verso un complicato de-risking, dall’altra la volontà di allinearsi a questa e ad altre misure di contenimento cinese occidentali. In una fase in cui eccezioni come l’adesione alla Bri, non rinnovata dal governo Meloni, difficilmente sarà di nuovo possibile.

Che cosa non ha funzionato con la Bri? “Il memorandum di intesa è stato firmato in un contesto di trasformazione profonda dell’ambiente internazionale, con un aumento della competizione tra le grandi potenze e un cambiamento nella percezione occidentale dell’iniziativa Belt and Road”, risponde Fasulo, per cui questo cambiamento del clima internazionale ha coinciso con l’acuirsi della competizione intra-europea per l’accesso preferenziale alla Cina, che ha portato a una frammentazione dell’unità europea verso la Cina.

Poi c’è una questione tutta cinese: le trasformazioni politiche interne della Cina sotto Xi Jinping, confermate dal Terzo Plenum, “hanno rafforzato la natura autocratica e ideologica della sua leadership, hanno alterato il contesto in cui il memorandum è stato firmato, rendendo meno favorevole il quadro per la cooperazione”.

E dunque, che fare per gestire le relazioni in una nuova ottica? “Si può ripartire dal partenariato strategico globale firmato nel 2004, sviluppando le relazioni bilaterali al di fuori del quadro Belt and Road, per mantenere rapporti di alto profilo ma de-politicizzati”, spiega Fasulo. Sotto quest’ottica della de-politicizzazione rientra anche la gestione della decisione di non rinnovare il memorandum, comunicata con grande cautela per evitare un caso mediatico, attraverso un’intensa attività diplomatica che a fine anno 2023 ha permesso alla Cina di accettare la posizione italiana senza ritorsioni diplomatiche.

Da qui, esiste la possibilità di “continuare a gestire le relazioni commerciali attraverso il dialogo anche politico, adattandosi alla ridefinizione globale delle catene del valore e alla globalizzazione, mantenendo al contempo un impegno strategico nell’Indo Pacifico per segnalare presenza politica in continuità con le attività del campo occidentale”.

In questo contesto, è particolarmente significativa la decisione del governo italiano di avviare trattative con Dongfeng Motors per aprire uno stabilimento produttivo in Italia. Dongfeng Motors, uno dei principali produttori cinesi di veicoli elettrici, sta considerando di stabilire linee produttive in grado di immettere sul mercato almeno 100.000 auto ibride all’anno, con l’intento di espandere la propria presenza in Europa. Da aggiungere che il ministero delle Imprese e del Made in Italy ha annunciato proprio in queste ore che sta predisponendo un accordo con il ministero dell’Industria della Tecnologia cinese per una cooperazione industriale, frutto del recente viaggio in Cina del ministro Adolfo Urso, soprattutto nei settori della tecnologia green e della mobilità elettrica: questo accordo potrebbe essere finalizzato durante la missione di Meloni a Pechino. Sono tematiche sensibili, che toccano sia la sicurezza economica sia quella dei dati gestiti da certi dispositivi.

Anche altri Paesi europei stanno considerando la possibilità di aprire stabilimenti cinesi per servire il mercato europeo. In Ungheria, Byd ha già avviato un impianto molto criticato, mentre la Spagna ha promosso una joint venture con Chery Auto per riattivare uno stabilimento chiuso nel 2021. Anche la Francia si è dichiarata aperta a progetti industriali cinesi nel settore automobilistico. Tutto va inquadrato nel contesto della recente decisione con cui l’Unione Europea ha avviato, a inizio luglio, l’imposizione di dazi sulle importazioni di veicoli elettrici dalla Cina — e Noah Barkin (Gmf/Rhodhium) ricordava su queste colonne che sarà importante che Meloni sostenga tale linea anche nel suo viaggio a Pechino. Negli Stati Uniti, la politica a favore di tariffe elevate sulle importazioni di veicoli elettrici cinesi, a supporto della produzione domestica e della sicurezza economica nazionale, con il rinnovarsi dell’amministrazione potrebbe essere anche più stringente.

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