Trump sceglie il suo vicepresidente: il senatore Vance ha una posizione chiara sulla Cina. Tariffe, competizione strategica, difesa di Taiwan (anche a scapito dell’appoggio all’Ucraina)
“I don’t like China”, era stato chiaro a maggio JD Vance. il vicepresidente che Donald Trump ha scelto aveva già segnato una linea sulla Cina molto netta e condivisa a Capitol Hill. Il senatore dell’Ohio ha promosso la politica estera trumpiana America First alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, per esempio, quando era ancora febbraio ma le attenzioni internazionali su di lui erano già alte — per il possibile “pick”. In quell’occasione, davanti ai più importanti attori e pensatori delle dinamiche internazionali, spiegò che secondo il suo modo di vedere le cose i Paesi europei dovrebbero assumersi maggiori responsabilità per la difesa militare, in particolare nel settore manifatturiero, in modo che gli Stati Uniti possano concentrarsi sull’investimento di risorse in Asia contro una Cina aggressiva.
Vance sostiene che gli Stati Uniti debbano adottare una politica industriale robusta per contrastare l’influenza cinese e proteggere gli interessi nazionali. Ha anche sollecitato ulteriori misure per ridurre la dipendenza dagli approvvigionamenti cinesi, promuovendo una maggiore autosufficienza economica e tecnologica americana. Ha espresso posizioni critiche riguardo Pechino in più di un’occasione, sottolineando la necessità di un approccio più duro per affrontare le sfide economiche e strategiche che la Repubblica popolare pone agli Stati Uniti.
Pensiero comune
Vance ha per esempio chiesto “tariffe su larga scala, specialmente sulle merci provenienti dalla Cina”, perché rappresentano una minaccia ingiusta per i posti di lavoro e il commercio americani. “Dobbiamo proteggere le industrie americane da tutta la concorrenza”, ha detto su “Face the Nation” della CBS, sostenendo che applicare le tariffe è come dire “ti penalizzeremo per aver usato il lavoro degli schiavi in Cina (riferimento allo Xinjiang, regione sopra alla quale Emirati e Cina si stanno esercitando, ndr) e aver importato quella roba negli Stati Uniti”. E, ha aggiunto: “Finisci per fare più cose in America, in Pennsylvania, in Ohio e nel Michigan”.
Sotto questo punto di vista, non ha posizioni originali ed eccessivamente diverse dal pensiero comune che ormai permea l’intero mondo politico statunitense — e sta passando, come conseguenza all’adattamento alle policy, al mondo produttivo. Che un’eventuale amministrazione Trump possa avere posizioni “da falco” con la Cina è quasi scontato — da non dimenticarsi infatti che fu sotto l’amministrazione di Donald Trump che a la competizione tra potenze in corso divenne scontro esplicito, perché in precedenza la stagione del “Pivot to Asia” di Barack Obama era stata più aperta, anche per questo oggetto di critiche come racontavamo in IPS10072024.
Cina sì, Ucraina snì, tariffe certo!
La scelta di Vance conferma dunque in via apparente una posizione che lui stesso ha ribadito da Sean Hannity, anchor di Fox News, al quale, alla domanda sulla guerra in Ucraina, ha spiegato che Trump negozierà con Mosca e Kyiv per “portare questa questione a una rapida conclusione in modo che l’America possa concentrarsi sul vero problema, che è la Cina”. In Ucraina c’è questa consapevolezza, Volodymyr Zelensky si dichiara “pronto a lavorare” con Trump mentre lancia l’idea di una nuova conferenza negoziale, stavolta con i russi (che commentano come “priva di peso” la proposta) da farsi a novembre — prima o dopo il voto americano non è specificato, ma forse dopo.
Ancora: “Questa è la più grande minaccia per il nostro Paese e noi ne siamo completamente distratti”, ha detto Vance poco dopo essersi unito alla campagna presidenziale repubblicana. Parole che mandano messaggi chiari, sebbene è possibile che nell’applicazione l’Ucraina non venga abbandonata con tanta facilità. È invece più facile prendere che una vittoria del ticket Trump/Vance possa significare l’applicazione di posizioni più dure con la Cina da parte dell’Europa, anche come contropartita per continuare l’impegno americano per la sicurezza del Vecchio Continente — come sostenere Kyiv, per esempio.
Trump ha promesso di aumentare le tariffe sulla Cina su tutta la linea se rieletto, promettendo una tassa del 60% su tutte le importazioni cinesi. Joe Biden ha già annunciato una nuova tassa del 100% sulle auto elettriche della seconda economia mondiale. È per questo che Bloomberg scrive che secondo le informazioni dell’intelligence americana la Cina non ha preferenze eccessive tra i due candidati. Un secondo mandato di Biden sarebbe comunque ugualmente duro con Pechino, sebbene magari sarebbe più prevedibile, perché Trump ha un record di irregolarità, e questo potrebbe essere più problematico per le lettura del Partito/Stato — per capirci: un conto è adattarsi a una linea sempre aggressiva, un altro è dover gestire una Casa Bianca che un giorno alza le tariffe e quello successivo ti offre un incontro bilaterale a lá Trump.
Pardigma Taiwan
Vance ha espresso posizioni chiare e articolate anche riguardo Taiwan, sostenendo anche in questo caso che gli Stati Uniti debbano ridurre il sostegno all’Ucraina per concentrarsi maggiormente sulla minaccia rappresentata da una possibile invasione cinese dell’isola. “In questo momento, sappiamo che Joe Biden non sta inviando armi a Taiwan, armi che abbiamo promesso ai taiwanesi, perché stiamo inviando quelle armi in Ucraina o altrove”, aveva detto ad aprile. Ma “la cosa che dobbiamo prevenire più di ogni altra cosa è un’invasione cinese di Taiwan. Sarebbe catastrofico per questo Paese. Decimerebbe tutta la nostra economia. Getterebbe il nostro Paese in una Grande Depressione”.
E ancora, articolando su una posizione che raccoglie consenso tra una certa schiera di repubblicani che professa da diverso tempo una riduzione degli impegni internazionali statunitensi: “Non abbiamo la capacità industriale, perché abbiamo preso molte decisioni sbagliate, per concentrarci contemporaneamente su Cina e Ucraina. Abbiamo la minaccia russa, la minaccia cinese, e possiamo difendere l’Ucraina, o possiamo difendere Taiwan. Ma non credo che possiamo difendere entrambi con le attuali capacità di produzione di armi che abbiamo. Quindi, in quel mondo di risorse limitate, ogni volta che aggiungiamo altri miliardi di dollari all’importo che stiamo dando all’Ucraina, stiamo in realtà, senza rendercene conto, prendendo la decisione di non concentrarci sul teatro dell’Asia orientale”.
Che Vance consideri Taiwan un elemento cruciale per la sicurezza globale è una buona notizia per chi da Taipei segnalava l’assenza di riferimenti all’Isola nella piattaforma programmatica repubblicana presenta alla Convention di Milwaukee. “La nostra politica di fatto è di ambiguità strategica”, ha detto in un’altra occasione. Ma “penso che dovremmo rendere il più difficile possibile per la Cina prendere Taiwan in primo luogo, e la risposta onesta è che cercheremo di capire cosa fare se attaccano”.
Qui Zhongnanhai
Pechino si sta preparando. Intanto sfrutta l’evidente vulnerabilità socio-politica statunitense, la polarizzazione di cui si parla da anni dimostrata con l’attentato a Trump. Mentre su Weibo vengono spinti i contenuti più disparati, da disinformazione pura a narrazioni più articolate, su altri canali di comunicazione del Partito/Stato viene dato spazio a riflessioni più accurate. “Mentre il mondo sta attraversando profondi cambiamenti, la Comunità internazionale può vedere chiaramente quale grande potenza può offrire coerenza e stabilità, e quale è più imprevedibile e piena di rischi”, commenta Li Haidong, professore della China Foreign Affairs University, sul Global Times, sottolineando che mentre la Cina tiene un importante plenum sulla modernizzazione e la riforma, il Terzo Plenum di questi giorni, c’è una seria lotta politica interna, polarizzazione e instabilità in alcuni Paesi, compresi gli Stati Uniti. “Lotta” che è in realtà l’incedere delle dinamiche democratiche che, sebbene a volte estremizzate da gesti e toni, mostrano le differenze — perfino le divisioni. Qualcosa che non sarà facile da individuare nella più importante assise istituzionale cinese, visto che il regime ha controllo totale.