L’esperto dell’Atlantic Council legge il ruolo della politica estera nella campagna elettorale per le elezioni presidenziali, e descrive le linee guida che l’amministrazione Trump seguirebbe in caso di vittoria. Nel segno del cambiamento, ma non della rivoluzione. E se con l’Europa i rapporti potrebbero essere più ambigui, con l’Italia si rafforzerebbero
Durante le scorse settimane le elezioni statunitensi sono entrate nel vivo. Dal dibattito tra i due candidati presidenti, l’attentato contro Donald Trump, il ritiro di Joe Biden in favore di Kamala Harris: tutti eventi che sembrano aver influenzato il corso della consultazione del prossimo novembre, il cui esito rimane tuttavia impossibile da prevedere. Ma se fino a pochi mesi fa una ri-elezione di Donald Trump sembrava alquanto improbabile, oggi è una possibilità estremamente concreta. Per quel che riguarda la politica estera (ma non solo), questo particolare sviluppo degli eventi implicherebbe certamente una rottura con l’attuale approccio seguito dagli Stati Uniti. Ma come si strutturerebbe una foreign policy trumpiana? Formiche.net lo ha chiesto a Matthew Kroenig, vicepresidente e senior director dello Scowcroft Center for Strategy and Security dell’Atlantic Council, in visita a Roma.
Lei è autore di un libro di recente pubblicazione sulla politica estera repubblicana nell’ambito di quella che descrive come una “nuova guerra fredda”. Quali sarebbero i paradigmi di politica estera di un’eventuale seconda presidenza Trump? Rappresenterebbero una forte rottura rispetto alle passate amministrazioni repubblicane?
Uno dei temi centrali trattati nel libro è proprio che il Partito Repubblicano sia in realtà molto più coeso sulla politica estera di quanto molte persone percepiscano. Anche a causa dell’immagine fornita dai media, che raffigurano all’interno del Grand Old Party due campi contrastanti: da una parte quello internazionalista di ispirazione reaganiana, dall’altra quella di più recente origine che viene definita “trumpiana, “isolazionista”, o “protezionista”. In realtà questi due campi convergono su pressoché ogni posizione. Dalla politica di difesa, a quella economica, all’aspetto ideologico.
Partiamo dalla politica di Difesa…
Certamente. E per farlo partiamo dal concetto di “Peace through strength”. Lo dice oggi Trump, così come ai tempi lo diceva Reagan. E ancora prima gli antichi romani: “Si vis pacem, para bellum”. L’idea di fondo dietro a queste formule è quella di essere così forti da scoraggiare gli avversari dallo sfidarti, e di essere pronti a rispondere duramente qualora decidano di farlo. Gli scarsi risultati delle lunghe campagne di nation building condotte attraverso l’uso della forza militare, come in Iraq o in Afghanistan, hanno causato un certo scetticismo. Di conseguenza, il partito si è unito intorno a questa idea di “Pace attraverso la forza”, che è diversa da quella propugnata dai democratici.
Unità presente anche all’interno della dimensione economica?
Esatto. Anche per quanto riguarda la politica economica, il partito repubblicano è compatto intorno alla visione di un commercio libero ed equo. C’è l’idea diffusa che Trump sia di pura fede protezionista, ma personalmente non credo che sia così. Il candidato repubblicano è stato infatti molto chiaro sul fatto che lo scopo delle tariffe doganali non sia tanto l’adottare una struttura protezionista, quanto quello di sfruttarle come leva al tavolo dei negoziati, così da ottenere un accordo commerciale migliore. Cosa che ha effettivamente fatto durante il suo primo mandato, rinegoziando due accordi commerciali con la Corea e con il Messico e il Canada. Il Partito Repubblicano mira ad un commercio libero ed equo; ma essere fregati dai propri partner commerciali, come ad esempio la Cina, non è un commercio libero ed equo. E a volte è necessario utilizzare strumenti protezionistici per riequilibrare la situazione.
Menzionava anche un aspetto ideologico. A cosa si riferisce?
Penso che ci sia un’idea di “eccezionalismo americano”, incarnata nello slogan trumpiano di “America first”, contrapposta a quella promossa dai democratici, con Biden e Harris e altri, che definiscono gli Stati Uniti come razzisti e sessisti, e si concentrano sui difetti della società americana piuttosto che sul perché gli Stati Uniti dovrebbero essere messi al primo posto. E anche qui c’è una forte unità interna. E questi sono solo alcuni dei temi principali. Ma se ampliamo il range ed entriamo negli argomenti specifici, dalla Cina all’Iran, dalla sicurezza energetica e al suo rapporto con il clima fino alla sicurezza delle frontiere, vediamo come il partito repubblicano sia effettivamente unito su tutte queste idee. Ci sono, ovviamente, aree in cui questa coesione non c’è, tra cui l’Ucraina. Ma credo che spesso i media si concentrino su queste differenze di alto profilo, non dando così l’immagine più realistica di un partito unito su tutti i principali temi di politica estera. Che saranno i cardini della politica estera di Trump, in caso di una vittoria alle elezioni di novembre.
La scelta di J.D. Vance come candidato alla vicepresidenza può essere letta come una dichiarazione di intenti in questo senso?
La risposta breve è no. Il vicepresidente non ha molta autorità formale sulla politica estera. Credo che piuttosto saranno i nomi che Trump sceglierà come segretario alla Difesa, segretario di Stato e consigliere per la sicurezza nazionale ad essere molto più eloquenti in questo senso. Inoltre, non credo che Trump abbia scelto Vance per le sue idee di politica estera. Penso che l’abbia visto come qualcuno che potesse aiutarlo a conquistare il nord, il Midwest, gli swing states, la Pennsylvania. E anche che volesse al suo fianco qualcuno che fosse una sorta di erede del movimento America First, e credo che Vance sia più ideologicamente allineato di quanto lo fossero gli altri papabili candidati vicepresidenti.
Pensa che sia importante per la campagna repubblicana puntare su tematiche di politica estera o che sia più importante concentrarsi su altri argomenti? “It’s the Economy, stupid!” è ancora uno slogan valido, o è cambiato qualcosa nelle “regole del gioco”?
Non credo che la politica estera sia un game-changer sul piano elettorale. Penso che questa elezione, così come molte altre, si concentrerà maggiormente sull’aspetto economico e, in una certa misura sulle questioni sociali che stanno diventando sempre più controverse negli Stati Uniti, come ad esempio i diritti delle persone transgender. Tuttavia, credo che la politica estera giocherà comunque un ruolo importante. Abbiamo già visto Trump impostare una sua narrativa, dicendo: “Guardate, l’Europa e il Medio Oriente erano in pace quando ero presidente. Putin ha invaso i suoi vicini sotto Bush, sotto Obama, e sotto Biden, ma non sotto di me. Votare democratico è votare per continuare la guerra in Ucraina, mentre un voto per Trump è un voto per il ritorno alla pace e alla stabilità”. E potrebbe anche sottolineare alcuni degli altri fallimenti della politica estera di Biden, come il ritiro dall’Afghanistan. Quindi sì, non sarà la questione più importante, ma credo che sarà senz’altro un tema della campagna elettorale.
Negli ultimi anni è emerso sempre più chiaramente all’orizzonte un blocco revisionista, che comprende la Federazione Russa, la Repubblica Popolare, l’Iran, arrivando alla Corea del Nord. Ritiene che per gli Stati Uniti e i suoi alleati sia meglio perseguire un approccio specifico nei confronti di ogni singolo attore di questo blocco o sviluppare una strategia globale e olistica per affrontarli tutti?
Penso perseguire una strategia globale sia la scelta migliore, per due motivi. Partiamo dal primo: questo nuovo asse di autocrazie stia lavorando più strettamente insieme, rafforzando i loro collegamenti. Lo vediamo con la Cina che dichiara una partnership senza limiti con la Russia, e che fornisce anche gli aiuti economici che alimentano la macchina da guerra di Mosca, con l’Iran e la Corea del Nord che forniscono armi alla Russia, con la Russia, la Cina e l’Iran che conducono esercitazioni militari congiunte, con la produzione di armi congiunte tra Cina e Russia. I legami militari tra questi Paesi sono già più stretti di quelli esistenti tra le potenze dell’Asse nella Seconda Guerra Mondiale, il che mi sembra un termine di paragone significativo. Questi attori hanno l’obiettivo comune di distruggere il mondo libero creato dagli Stati Uniti, dall’Italia e dagli altri alleati dopo la Seconda Guerra Mondiale. Sicuramente non è perfetto, ma credo sia stato il miglior sistema mai inventato per mantenere la pace, la stabilità, la prosperità, la libertà in Nord America, in Europa, e nell’Indo-Pacifico. Se vogliamo preservare questo sistema, dobbiamo assolutamente perseguire un approccio olistico. Uno più segmentato non potrebbe funzionare. Alcuni dicono che dovremmo cercare di dividere Russia e Cina. In teoria sarebbe bello. In pratica, non vedo come si possa fare. Altri dicono: “Dobbiamo stabilire delle priorità, perché non possiamo fare tutto”. Ma gli Stati Uniti, da soli, hanno il 26% del Pil mondiale. La maggiore quota di Pil globale negli ultimi venti anni. Qualcuno dice che gli Stato Uniti sono una potenza in declino, ma in realtà sono una potenza in ascesa. Cina, Russia, Iran, Corea del Nord insieme hanno qualcosa come il 18% del Pil globale. Gli Stati Uniti avrebbero le risorse necessarie ad affrontare tutti e quattro queste potenze.
Ma gli Stati Uniti non sono soli…
Fortunatamente no, non siamo soli: abbiamo trentadue alleati nella Nato, a cui si aggiungono gli alleati nell’Indo-Pacifico come Giappone, Corea del Sud, Australia, Filippine. Gli Stati Uniti e gli alleati “formali” rappresentano quasi il 60% del Pil globale. Quindi, se lavoriamo insieme, credo che abbiamo una preponderanza di potere per affrontare allo stesso tempo queste nuove autocrazie revisioniste.
Pensa che un’amministrazione Trump possa puntare a una sorta di “multipolarizzazione controllata” del sistema internazionale, rinunciando ad una parte del proprio potere globale, per cederlo ad altre potenze al fine di raggiungere un nuovo punto di stabilità? O pensa invece che sarà un approccio più basato sul confronto?
Dipende. Non credo che sulla Cina sia questo il modo di pensare. I consiglieri di Trump sulla politica estera sono tutti “falchi” nei confronti di Pechino, intenzionati a vincere la competizione con la Cina e dissuaderla dall’invadere Taiwan. Quindi penso che ci sarà un approccio duro nei confronti della Cina. Anche per quanto riguarda la Russia, credo che l’approccio sia in un certo senso duro, ma forse più realistico quando si tratta della guerra in Ucraina. Credo che, per alcuni aspetti, Biden abbia operato bene. Ma non c’è una strategia in Ucraina. L’Ucraina deve ottenere una vittoria militare decisiva sul campo di battaglia e riprendersi tutto, compresa la Crimea? Sinceramente, non credo sia possibile. Le prospettive sono quindi di combattere una guerra finché è necessario, come ha detto Biden, ma finché è necessario per fare cosa? Viceversa, credo che Trump sia stato chiaro sul fatto che vuole forzare i negoziati per cercare di ridurre il conflitto lungo le linee attuali. Alcuni stanno cercando di dipingere questo approccio come una sorta di capitolazione nei confronti della Russia, ma io non la vedo così. Lo vedo come un approccio pragmatico per risolvere un conflitto difficile.
Spostiamoci sulle relazioni transatlantiche, aspetto securitario. Come considera l’approccio di Trump in questo senso?
Alcuni, tra cui J.D. Vance, hanno detto che l’Europa deve difendersi da sola in modo che gli Stati Uniti possano concentrarsi sull’Asia. Penso che sia un approccio sbagliato. Io credo che l’Europa debba fare di più, così che, assieme agli Stati Uniti, possa affrontare la minaccia rappresentata dalla Russia, dal terrorismo et cetera. Permettendo allo stesso tempo agli Stati Uniti di dedicare più attenzioni e risorse all’Indo-Pacifico. Ma credo che se gli Stati Uniti si ritirassero dall’Europa e dicessero: “Va bene. Pensateci voi” non funzionerebbe, e non credo che sarebbe positivo per gli interessi degli Stati Uniti. Quindi, sì, gli alleati europei dovrebbero fare di più, ma con un impegno costante da parte degli Stati Uniti.
Il riferimento, ovviamente, è all’obiettivo del 2%.
Esatto. Trump ha fatto della condivisione degli oneri un tema importante, affermando come gli alleati della Nato non stiano facendo abbastanza. Quello della spesa è un punto importante: la Nato ha adottato nuovi piani regionali, i primi piani di difesa “veri” dalla fine della Guerra Fredda. Ho avuto modo di confrontarmi con alti funzionari militari dell’Alleanza Atlantica, i quali hanno detto che per fornire le capacità necessarie a questi piani, il 2% non sarà sufficiente. Secondo i loro calcoli, sarà necessario qualcosa come il 3,6%. Quindi è importante che tutti gli alleati, Italia compresa, si assicurano di fare ciò che è necessario per garantire la sicurezza dell’Europa. Anche se sarà piuttosto difficile da accettare da parte di alcuni di essi.
Mentre per quanto riguarda l’aspetto economico? L’Unione europea e gli Stati Uniti sono forti alleati, e di un ritorno di Trump alla Casa Bianca, l’amministrazione repubblicana dovrà trovare una sorta di punto d’incontro tra la promozione dei propri interessi, e il mantenimento dei legami con l’Ue. Quale pensa sia il punto di compromesso tra questi due aspetti?
Penso che la collaborazione tra Stati Uniti e Unione europea abbia molto senso quando si tratta della sfida cinese, perché molte delle minacce poste dalla Cina non sono solo militari. Se si pensa al de-risking economico e alla competizione tecnologica, gli Stati Uniti non possono farcela da soli. Hanno bisogno dell’Europa, che è una superpotenza in campo economico, e rappresenta circa il 20% del Pil mondiale. Ma è anche una potenza tecnologica e una potenza normativa. Per questo motivo, se si pensa all’approccio a questa parte della competizione, gli Stati Uniti e l’Unione Europea devono lavorare a stretto contatto. Allo stesso tempo, Trump è molto interessato al commercio, ai negoziati e alle pratiche commerciali sleali. Non a caso ha ventilato l’ipotesi di adottare una tariffa generale del 10%. Non credo che lo farà davvero. Penso invece, come dicevamo poco fa, che sia una minaccia strumentale all’avvio di un negoziato. Trump vorrà negoziare con l’Unione Europe, come d’altronde ha già fatto nel primo mandato. Quindi credo che il rapporto tra Stati Uniti e Usa avrà due velocità diverse.
Che dire invece delle prospettive per quanto riguarda le relazioni bilaterali tra Stati Uniti e Italia. Al di là della cornice del blocco europeo, pensa che qualcosa cambierà?
Beh, credo che il rapporto tra Stati Uniti e Italia sia forte, e non dipenda da chi è al potere in Italia o negli Stati Uniti. Siamo alleati nella Nato da 75 anni. Quindi penso che, a prescindere da come si svolgeranno le elezioni, il rapporto continuerà a essere forte. Se ci sarà anche un Trump, tuttavia, potrei vedere le relazioni stringersi ancora di più. Avremmo un governo di centro destra in Italia con Meloni, e un governo di centro-destra negli Stati Uniti con Trump, con valori condivisi su famiglia tradizionale e questioni di genere. Per quanto riguarda la politica estera, sembra che il governo Meloni e l’ipotetico governo Trump la pensino allo stesso modo quando si tratta della sfida con la Cina, così come della guerra in Ucraina, che la Russia sia un problema, che Putin sia un problema, ma che una guerra infinita non sia nell’interesse di nessuno. Quindi sì, credo di poter vedere le relazioni rafforzarsi ulteriormente con Trump alla Casa Bianca e Meloni a Roma.