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Meloni e il peso della sindrome di Togliatti sul voto a Von Der Leyen. L’opinione di Tivelli

Forse Meloni è più rigida di Togliatti e il fatto che i suoi voti, ridimensionati dalle fughe verso i Patrioti d’Europa, sarebbero diventati solo aggiuntivi, ha condotto il premier ha una scelta, ad un ripensamento, che certamente creerà man mano non pochi pentimenti. L’opinione di Luigi Tivelli

Nello studiare da tempo Meloni ho sempre pensato che alla fin fine sia una togliattiana non so quanto consapevole. In fondo Meloni è andata al governo attuando e applicando il modello del Pci di Palmiro Togliatti, ovvero quello di partito di lotta e di governo. E ha governato e continua a governare sulla base di questo modello. Mostra, infatti, talvolta cultura da “partito di governo” come premier, e contemporaneamente manda avanti i suoi a fare il “partito di lotta”.

L’errore di Schlein, specie nella prima fase, è stato quello di ritenere di potersi contrapporre a Meloni solo tramite una impostazione di lotta. È come se la Schlein si sia dimenticata quali sono i padri del Pd e che non abbia tenuto conto del modello togliattiano. A dire il vero da qualche mese anche Schlein sta aggiungendo dosi da partito di governo al suo Pd che nei primi mesi ha guidato esclusivamente da partito di lotta. Nel modello togliattiano c’è sempre stata, però, una sindrome precisa: ovvero fare di tutto per non avere nemici a sinistra.

Una sindrome che valeva anche per il Partito comunista francese: Pas d’ennemis à gauche, come dicevano e praticavano i comunisti francesi (mutuando la formula dal radicale René Renult). Un’ossessione rispetto al rischio di avere nemici a destra, di cui soffre profondamente il presidente del Consiglio. Certo, Salvini fa di tutto per alimentare questa ossessione inseguendo in Italia e in Europa tutte le posizioni di destra… man mano le più estreme possibili. A volte ti passano davanti però tornanti importanti passaggi della storia che puoi scambiare per ordinari momenti di attualità.

Uno di questi passaggi della storia è stato la scelta di concedere o meno il sostegno a Ursula von der Leyen entrando così in qualche modo nella maggioranza di governo dell’Unione Europea. Un aspetto molto delicato e importante per un paese che dall’Ue deve ottenere un atteggiamento più aperto possibile quanto ai vincoli del debito e ai conti di finanza pubblica e pure aperture per quanto riguarda l’effettiva attuazione e i tempi di attuazione del Pnrr. Nello scambiare la storia per la cronaca forse Meloni ha commesso un errore molto grave; la sindrome togliattana che la ha fatta optare per il non sostegno alla riconferma di Ursula von der Leyen può comportare costi non poco significativi.

Quella che sembrava l’unico premier di matrice conservatrice rispettoso dei vincoli europei, leale con l’alleanza atlantica e aperto verso chi guida l’Europa forse ha preso una gran cantonata. Il vero Togliatti in una situazione di questo tipo non si sarebbe certo confuso con quelle estreme, in qualche caso un po’ orripilanti che si sono opposte al nuovo governo europeo. In politica seguire un po’ troppo gli schemi può causare guai di non poco conto. È chiaro che lo schema Meloni è stato quello di essere come Conservatori e Riformisti determinanti per la maggioranza Ursula.

Il subentro dei Verdi, i primi alfieri di quel Green deal, che, anche nella destra italiana, trova tanti dissensi (alcuni anche legittimi), ha infranto lo schema del premier Meloni. Ma quando si infrange uno schema un leader deve avere sempre una via d’uscita in tasca, una seconda soluzione. Forse Meloni è più rigida di Togliatti e la miscela di pas d’ennemis à droite e il fatto che i suoi voti, ridimensionati dalle fughe verso i Patrioti d’Europa, sarebbero diventati solo aggiuntivi, ha condotto Meloni ha una scelta, ad un ripensamento che certamente creerà man mano non pochi pentimenti.

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