Pechino applica la propria legge anche tra le acque di Taiwan e nel Mar Cinese. Coercizioni del Partito a cui Usa e Ue possono rispondere con le Fonops (volendo…)
Come già successo nel Mar Cinese Meridionale ai danni delle Filippine, la Guardia costiera cinese forza le regole anche contro Taiwan, con attività di law enforcement all’interno di territori in cui la sovranità di Pechino è soltanto un obiettivo strategico (perfino esistenziale) del Partito/Stato, ma non un dato di fatto sancito dal diritto internazionale.
Nei giorni scorsi, una barca di pescatori taiwanesi è stata bloccata attorno all’isola di Kinmen (la “Porta d’oro”, che come spiegava Gabriele Carrer è abituata convivere con le attività militari cinesi). L’isola, o meglio il mini-arcipelago, è molto vicino alla costa cinese: davanti c’è Xiamen, sede delle unità anfibie del 73esimo Gruppo armato del Teatro del comando orientale; saranno le prime unità a partire se all’Esercito popolare di liberazione venisse dato l’ordine di invadere Taiwan. Ma nell’equilibrio che regola lo status quo, le acque di Kinmen sono taiwanesi.
Quest’equilibrio era rispettato dai cinesi, ma ormai la continua erosione dello status quo è arrivata anche in quelle zone iper sensibili. Tutto serve a dimostrare che in realtà lo status quo non esiste, ma può essere alterato unilateralmente da Pechino – ossia a dire che Taiwan stessa non esiste, perché l’esistenza dell’amministrazione autonoma di Taipei è legata a quello status quo. Nello specifico di Kinmen, i cinesi hanno sfruttato un incidente avvenuto a febbraio mentre un peschereccio (cinese) veniva inseguito dai taiwanesi per violazioni delle regole (dello status quo, appunto).
Da lì in poi i cinesi hanno iniziato a pattugliare le acque di Kinmen senza rispetto dei divieti di ingresso imposti da Taiwan: qualcosa di simile è successo con la visita dell’ex speaker statunitense Nancy Pelosi, quando per “punizione” hanno iniziato a violare acque e cieli di Taipei, o ancora con la recente inaugurazione di William Lai (il presidente che la Cina appella negativamente come “indipendentista”, usando la parola impronunciabile per il Partito, “indipendenza”).
Nel processo teoricamente pacifico con cui Xi Jinping intende annettere Taiwan (“riannettere” lo dice soltanto la dottrina del Partito, perché la Repubblica di Cina non è mai stata parte della Repubblica Popolare) si procede per pressioni. Ci sono quelle informative, costanti, quelle economiche, ci sono le minacce di invasione e c’è un uso della forza più subdolo abbinato a quelle dinamiche di grey-zone di cui si parla molto in questo periodo (le Kinmen sono uno dei punti preferiti per certe attività, e per esempio l’incursione della nave da pesca cinese a febbraio rientra in queste: una provocazione, finita male, utile per innescare nuove modifiche dello status quo).
Taiwan è sottoposto a una costante pressione psicologica, che pesa sul governo e sui cittadini. Quando a metà giugno la Cina ha introdotto la nuova legge che consente alla Guardia costiera il law enforcement nelle acque contese – ossia di abbordare imbarcazioni di altri Paesi in quelle zone che Pechino non solo rivendica, ma ormai ritiene di propria sovranità – le fonti taiwanesi anticipavano già quanto successo nei giorni scorsi. Anche senza riconoscimento internazionale, la Cina ferma navi altrui, ne arresta gli equipaggi, addirittura la Corte Suprema di Pechino ha avallato la possibilità della pena di morte contro chi viene arrestato e riconosciuto colpevole di azioni per favorire l’indipendenza di Taiwan.
È sull’onda di tutto questo che le Freedom of navigation operations, le cosiddette FonOps, condotte dagli Stati Uniti lungo lo Stretto di Taiwan, diventano tanto necessarie (e tattiche) quanto strategiche. Mantenere la libertà di navigazione in quella zona significa, per esteso, permettere l’esistenza stessa di Taiwan. È per questo che certe attività straniere innervosiscono Pechino, che intende lo Stretto di propria sovranità. È per questo che i passaggi lungo quella lingua di mare tempestosa che marca fisicamente la divisione tra Cina e Taiwan sono parte del dibattito anche in Europa. Perché tra le attività che gli assetti Ue possono compiere per la sicurezza dell’Indo Pacifico (tema dell’ultima edizione di “Indo Pacific Salad”) potrebbe esserci anche una presenza coordinata all’interno di quelle rotte, ma c’è il rischio di innervosire pesantemente Pechino – e di pagarne le conseguenze.
Il dibattito è particolarmente vivo in Germania, per esempio: la fregata classe Baden-Württemberg che la Deutsche Marine invierà nell’Indo Pacifico a settembre (per una missione di sette mesi), passerà attraverso lo Stretto di Taiwan? A quanto pare, sia Difesa che Esteri lo vorrebbero, ma il cancelliere Olaf Scholz avrà l’ultima parola in una decisione complessa per gli equilibri Pechino-Berlino. Un mese fa, i Paesi Bassi hanno inviato la fregata Tromp attraverso lo Stretto per la prima volta da decenni, attirando il violento rimprovero di Pechino, che ha anche inviato una propria nave da guerra attraverso la linea mediana per fare ombra a quella olandese. L’Aia, ai tempi sotto il governo del neo-nominato segretario generale della Nato (in carica effettiva dal 2 ottobre), Mark Rutte, ha preso la decisione nonostante fosse sotto un intenso controllo da parte del governo cinese per aver limitato le esportazioni di attrezzature per la produzione di chip.
La questione tocca lateralmente anche l’Italia, che ha in questi giorni il principale degli assetti militari strategici nell’Indo Pacifico: ma il problema è stato aggirabile da ragioni geografiche. Nave Cavour non passerà per lo Stretto di Taiwan perché sarebbe una modificazione eccessivamente forzata della rotta prefissata, che comporterebbe aumento di costi e tempi di navigazione, e toccherebbe (inutilmente?) sensibilità politiche mentre il governo italiano fa visita a Pechino, con il ministro Adolfo Urso e poi con la premier Giorgia Meloni.