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Elezioni Usa, tutti i colpi di scena nella corsa alla Casa Bianca

Il prossimo inquilino della Casa Bianca sarà una donna? A giudicare dall’entusiasmo dei media, si direbbe di sì. Nonostante il sostanziale pareggio nei sondaggi, l’esito resta del tutto incerto. L’intervento di Gregory Alegi, professore di storia e politica Usa della Luiss Guido Carli

Cosa sta succedendo in Usa? Chi vincerà le elezioni del novembre 2024? Quanto è genuino il sostegno per Trump e Harris riportato a giorni alterni dai media? Le risposte, sempre difficili, sono rese ancor più confuse da un mese molto dinamico sotto il profilo mediatico e politico.

Dal 27 giugno al 21 luglio la scena è stata scossa da una serie di terremoti con pochi precedenti nella storia statunitense: prima il panico democratico per le difficoltà di Joe Biden nel dibattito televisivo, poi l’attentato a Donald Trump, la convention repubblicana che ne ha ufficializzata la candidatura e infine il colpo di scena della rinuncia di Biden con passaggio di testimone a Harris. Notizie e commenti si sono susseguiti quasi senza dar tempo per un’analisi complessiva della corsa alla Casa Bianca. Eccola, partendo dai precedenti che spiegano la difficoltà di fare previsioni.

In termini statistici, la rinuncia alla ricandidatura è un evento piuttosto raro. È  opinione diffusa che la presidenza sia di fatto un mandato di otto anni con una verifica a metà percorso. Sia pur con qualche sfumatura, i numeri confermano. Nei 235 anni da quando George Washington si insediò alla presidenza, gli Usa hanno avuto 46 presidenti. Di questi, solo sette non si sono ricandidati e nessuno a meno di quattro mesi dal voto. Altri quattro non si ricandidarono perché uccisi, nove lo fecero senza essere rieletti, venticinque ottennero il secondo mandato e uno, il grandissimo Franklin Roosevelt, ne ottenne addirittura quattro.

L’eccezionalità del ritiro impedisce di trarre regolarità statistiche. Per limitarci ai casi del XX secolo, Harry Truman, che aveva ereditato il quarto mandato di Roosevelt alla sua improvvisa morte ed era stato rieletto per il rotto della cuffia nel 1948, rinunciò a correre di nuovo nel 1952 per due motivi: la forte impopolarità della guerra di Corea e l’introduzione dell’emendamento sui due mandati, che pure a lui non si applicava. Vinsero i repubblicani, che presentarono il generale Dwight D. Eisenhower, al quale peraltro avevano pensato anche i democratici. Nel 1968 fu il turno di Lyndon B. Johnson, che dopo aver fatto tutto ciò che Kennedy aveva promesso ma non mantenuto assunse su di sé la responsabilità della guerra in Vietnam rinunciando a ripresentarsi. L’assassinio di Robert F. Kennedy, che appariva il candidato più promettente, precipitò i democratici nel caos. La convention di Chicago fu segnata da violente proteste, scontri con la polizia e arresti, spianando la strada alla facile vittoria del repubblicano Nixon sulla duplice promessa di ristabilire l’ordine e chiudere il Vietnam.

Cosa succede in casa dem?

Nel discorso di ieri, Biden ha rivendicato i successi del suo quadriennio in termini di economia, lavoro, ricostruzione dei rapporti con l’Ue e la Nato, dicendo che sarebbero stati una base sufficiente per ricandidarsi. Un po’ ne è convinto, un po’ è il viatico necessario perché Harris possa usare il quadriennio 2021-2024 come trampolino di lancio. Resta la divisione (il “trattino”, nel linguaggio politico italiano) tra le due anime centrista e progressista del partito, evidentissima sulla questione israelo-palestinese ma forse ancor più profonda sui temi sociali. Nessun democratico contesta la vicinanza ai sindacati, esemplificata dalla presenza di Biden a fianco dei lavoratori in sciopero.

Altre posizioni spaccano il partito e, soprattutto, ne rendono difficile l’affermazione in moltissimi stati. Questa sarà la sfida più difficile per Harris, alla quale l’investitura della California e di New York non sarà in sé sufficiente per raggiungere la soglia dei 270 voti elettorali necessaria per vincere. Proprio per questo, molto dipenderà dalla scelta del vice presidente. Se Harris vorrà bilanciare la proposta verso il centro, sceglierà un uomo bianco (possibilmente di religione ebraica, per rintuzzare l’accusa di essere pro-pal); se volesse scommettere sull’ala sinistra, potrebbe scegliere un’altra donna. Al momento, nessuno si sbilancia, anche perché nonostante l’ottimismo forzato tutti hanno ben chiaro come la corsa sia in salita.

Di certo, l’abilità dialettica affinata come procuratore e il dinamismo dell’età le danno un evidente vantaggio nei confronti diretti con Trump. Questo potrebbe spostare le poche centinaia di migliaia di voti necessari per aggiudicarsi gli stati in bilico. Proprio per questo, ieri la campagna di Trump ha rifiutato di confermare il calendario già concordato con Biden.

Il partito repubblicano

La campagna elettorale di Trump – che ama farsi chiamare “presidente”, anziché il più corretto “ex presidente” – era tutta basata sugli attacchi personali contro Biden, rappresentato come un vecchietto inefficace. Per garantire la vittoria a Trump sembrava sufficiente contrastare la lentezza degli 81 anni di Biden – e in proiezione, gli 82, 83, 84 e 85 – con l’energia animale dei propri 77.

Il suo ritiro sembra aver messo in difficoltà i repubblicani, anche perché il ticket Trump-Vance sembra rivolto al solito elettorato bianco, insoddisfatto, in crisi: in una parola, quello descritto da Vance nella sua Hillbilly Elegy (“elogia del burino”). Una fetta importante della popolazione, ma certo non rappresentativa dell’intero paese. In questo senso, Vance non sembra portare in dote altro che la promessa di poter mantenere la linea Trump per altri otto anni dopo il limite costituzionale di un eventuale mandato Trump.

In attesa della nuova linea di comunicazione, il partito sembra puntare sugli ostacoli di tipo amministrativo, per esempio riguardo la trasferibilità a Harris dei fondi raccolti da Biden. Questo, come la freddezza verso i dibattiti, pare segno di paura.

Largo ai temi

Fino al 21 luglio, il tema centrale della campagna è stata l’età di Biden, accusato dai repubblicani di essere incapace di governare. A questo – in base a un accostamento, in verità forzato, tra l’ultimo semestre del mandato e i quattro dell’eventuale secondo – si sono agganciate le richieste di dimissioni dalla presidenza, infondate in diritto e senza precedenti nella storia politica Usa.

Senza Biden, si può tornare a parlare di politica, o meglio delle diverse visioni del destino del paese. Da qualsiasi parte la si guardi, la piattaforma repubblicana è esplicitamente conservatrice (ma sarebbe lessicalmente più corretto chiamarla reazionaria). Che si tratti della “Agenda 47” ufficiale del partito repubblicano, del Project 2025 ufficioso, delle parole di Trump e di Vance, Harris potrà dipingere i repubblicani come nemici degli americani in termini di vita quotidiana degli elettori. Solo per fare alcuni esempi: no al pagamento extra degli straordinari salvo nel giorno di culto (Project 2025), no agli aiuti ai disabili (Trump), meno potere a chi non ha figli perché disinteressato al futuro (Vance).

Comunque vada, è facile prevedere che di qui a novembre assisteremo a una campagna elettorale senza esclusione di colpi, con un forte rischio di non accettazione del risultato da parte repubblicana.

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