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Palestinesi a Pechino, Netanyahu a Washington. Incroci strategici sul Medio Oriente

Un’ampia delegazione palestinese trova riconciliazione alle divisioni interne che durano da quasi vent’anni. Per la Cina è anche un modo per spingere la narrazione anti-occidentale. Questa analisi è parte del “Diario Indo Mediterraneo” contenuto nell’edizione odierna di Indo Pacific Salad

Le fazioni rivali Hamas e Fatah hanno firmato una dichiarazione con cui accettano di formare un “governo di riconciliazione nazionale” ad interim per la Cisgiordania occupata e per la Striscia di Gaza una volta che la guerra con Israele sarà conclusa. E così, dopo la normalizzazione dei rapporti tra Iran e Arabia Saudita, Pechino si trova a mediare un altro passaggio fondamentale per la stabilità del Medio Oriente che riguarderà il percorso di costruzione del potenziale, eventuale, possibile stato palestinese.

Usando le parole di Zineb Riboua dell’Hudson Institute, la lettura della situazione può assumere aspetti complicati: “Unendo Hamas e Fatah, la Cina è ora il principale attore nel plasmare la situazione post-Gaza e sta erodendo con successo l’influenza degli Stati Uniti sulla regione”. In realtà, contemporaneamente alle notizie palestinesi da Pechino, Washington ha fatto sapere (al bravissimo Barak Ravid) che gli Stati Uniti hanno avuto un incontro segreto con emiratini e israeliani per parlare del “day-after”. Non è casuale, chiaramente. Bret Baier, anchorman capo del desk politico di Fox News, si è affrettato a confermare l’indiscrezione, mentre Benjamin Netanyahu è a Washington – per incontri trumpiani, ma anche per capire i Democrats adesso e in futuro – e Donald Trump condivide online il messaggio di conforto ricevuto da Mahmoud Abbas dopo l’attentato subito.

Tornado a Pechino: i rappresentanti dei due gruppi principali, insieme ad altre 12 fazioni palestinesi, si sono impegnati a lavorare per l’unità dopo tre giorni di colloqui guidati dal team del ministro degli Esteri Wang Yi – che dopo una serie di meeting apparentemente infruttuosi hanno raggiunto un risultato inatteso (e anche per questo ci sarà da verificare come andranno realmente le cose).

Val la pena di ricordare che la profonda divisione tra Hamas e Fatah è iniziata nel 2007, quando il gruppo politico/militare responsabile dell’attacco del 7 ottobre contro Israele (che ha aperto l’attuale stagione di guerra) è diventato l’unico sovrano nella Striscia, espellendo violentemente Fatah dal territorio. Tutto è successo dopo che il presidente palestinese e leader di Fatah, Mahmoud Abbas, aveva sciolto il governo di unità guidato da Hamas e formato quando il gruppo terroristico aveva vinto le elezioni nazionali l’anno prima. Da allora, l’Autorità palestinese dominata da Fatah è rimasta responsabile solo di parti della Cisgiordania.

Israele, che ha promesso di distruggere Hamas prima di porre fine alla guerra, ha rapidamente respinto la dichiarazione di Pechino, anche perché Netanyahu sa che non c’è spazio per permettere ambiguità davanti all’alleato americano. “Invece di rifiutare il terrorismo, Mahmoud Abbas abbraccia gli assassini e gli stupratori di Hamas, rivelando il suo vero volto”, è il commento forte del ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz: “In realtà, questo non accadrà perché il dominio di Hamas sarà schiacciato e Abbas guarderà Gaza da lontano. La sicurezza di Israele rimarrà esclusivamente nelle mani di Israele”.

Hamas ha attualmente perso il controllo a Gaza da quando la guerra ha comportato l’invasione della Striscia — ora di fatto un terreno militarizzato e martoriato da una profonda crisi umanitaria. E anche per questo cerca la sponda cinese: Hamas vuole riconoscimento internazionale, e soprattutto vuole un salvacondotto per garantirsi un’esistenza futura, mentre Netanyahu spiega (criticamente) ai congressisti americani che l’unica soluzione possibile non è il dialogo (proposto da Pechino), ma la cancellazione dell’entità palestinese dalla faccia della terra. In una dichiarazione pubblicata su Telegram, il portavoce di Hamas, Hossam Badran, ha invece affermato che la riunione ospitata da Wang è stata un “ulteriore passo positivo sulla strada per raggiungere l’unità nazionale palestinese” – sottolineando quindi che senza Hamas coinvolta non ci sarà mai unità palestinese, dunque ci sarà sempre caos.

Ha detto anche che “la parte più importante” di ciò che è stato concordato era formare un governo di consenso nazionale palestinese il quale “gestisse gli affari del nostro popolo a Gaza e in Cisgiordania, supervisionasse la ricostruzione e preparasse le condizioni per le elezioni”. E qui coinvolge la Cina come garante di questo processo: fino a quanto Pechino si farà coinvolgere non è chiaro.

La dichiarazione è in effetti un’espressione di intenti, in quanto ci sono grandi ostacoli al far funzionare tale accordo. Fatah deve ancora commentarlo, anche se il suo rappresentante Mahmoud al Aloul, ha ringraziato la Cina per il suo sostegno alla causa palestinese dopo l’annuncio.

“La Cina e la Palestina sono fratelli affidabili e buoni partner”, ha detto martedì il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, aggiungendo che Pechino “lavorerà instancabilmente con tutte le parti pertinenti” verso l’unità e la riconciliazione. “La riconciliazione è una questione interna per le fazioni palestinesi, ma allo stesso tempo non può essere raggiunta senza il sostegno della Comunità internazionale”, ha detto il ministro degli Esteri dopo la firma della dichiarazione. Wang, che è anche capo della diplomazia del Partito comunista cinese, ha delineato un piano in tre fasi per gestire la guerra a Gaza: promuovere un cessate il fuoco duraturo; sostenere il “principio dei palestinesi che governano la Palestina”; e riconoscere lo stato di Palestina come parte di una soluzione a due stati e dare loro la piena adesione alle Nazioni Unite.

Il sostegno della Cina alle cause palestinesi risale all’era del leader Mao Zedong, che ha inviato armi ai palestinesi a sostegno dei cosiddetti movimenti di “liberazione nazionale” in tutto il mondo. Mao aveva persino paragonato Israele a Taiwan come basi dell’imperialismo occidentale. Nelle loro osservazioni sull’ultimo conflitto, i funzionari cinesi e persino il presidente Xi Jinping hanno costantemente sottolineato la necessità di uno stato palestinese indipendente. Xi ha anche inviato i suoi migliori diplomatici in Medio Oriente per colloqui e recentemente ha ospitato leader arabi per una conferenza a Pechino.

Per il Partito/Stato la situazione israelo-palestinese è un’occasione per spingere la narrazione anti-occidentale con cui porre sotto profonda revisione il modello di governance che ha regolato gli affari internazionali negli ultimi settant’anni. Ossia, è un altro spazio in cui incunearsi, sfruttando oggettivi vuoti e doppi standard — ben percepita da quella parte di mondo che l’Occidente definisce “Global South”.

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