Le dinamiche di funzionamento della flotta usata da Mosca per commerciare il suo petrolio al di fuori dei limiti imposti dalle sanzioni ricostruite da Alessio Armenzoni, associate fellow presso l’Open Source Centre, e Giangiuseppe Pili, assistant professor dell’Intelligence Analysis Program presso la James Madison University e Rusi associate fellow
Il commercio di petrolio è stato sin dalla nascita della Federazione Russa, e prima ancora dai tempi dell’Unione Sovietica, una preziosa fonte di introiti per il Cremlino.
In seguito all’invasione su larga scala dell’Ucraina lanciata dalle forze armate russe nel febbraio del 2022, il settore petrolifero è stato ovviamente uno dei principali ad essere toccati dal regime di sanzioni imposto dall’Occidente nel tentativo di limitare l’afflusso di risorse alla Federazione Russa e al suo apparato bellico. Mosca ovviamente non è rimasta ferma a guardare, e si è mossa pressoché immediatamente per attivare canali che gli permettessero di aggirare le suddette sanzioni. Uno dei più discussi, specialmente negli ultimi mesi, è quello della cosiddetta Shadow Fleet, che con le sue centinaia e centinaia di navi permette al Cremlino di commerciare il petrolio senza rispettare i limiti previsti dal regime sanzionatorio.
Sulla tematica specifica, Formiche.net ha intrattenuto una conversazione con Alessio Armenzoni, associate fellow presso l’Open Source Centre, e Giangiuseppe Pili, assistant professor dell’Intelligence Analysis Program presso la James Madison University e Rusi associate fellow, esperti della questione e autori di molteplici documenti al riguardo pubblicati da think tank e centri di ricerca di portata internazionale, l’ultimo dei quali è stato pubblicato lo scorso giugno dallo U.S. Naval Institute.
“Innanzitutto, dobbiamo chiarire un punto”, esordisce Armenzoni, “ovvero che la shadow fleet non è di per sé uno strumento illegale. Molte navi di questa flotta sono ‘sanctions compliant’: le loro caratteristiche non rientrano nei requisiti delle sanzioni comminate dall’Unione Europea e dal G7 (spesso sfruttando cavilli e loopholes interni alle stesse), e quindi non sono bersaglio delle sanzioni stesse. Se la nave non è assicurata da assicuratori occidentali, non è gestita e finanziata da compagnie membri dell’Ue o del G7, quella nave è libera di commerciare il petrolio al prezzo che vuole”.
C’è però anche un’altra parte della flotta, minoritaria ma comunque significativa, responsabile della commissione di illeciti dal punto di vista del regime sanzionatorio, che trasporta e commercia petrolio greggio al di sopra del price cap. “Uno degli aspetti complicati della faccenda è proprio questa alternanza, che porta a dover costruire un caso di lavoro specifico per ogni singola nave, anche perché sono le singole navi, così come i singoli individui o singoli enti, ad essere bersaglio delle sanzioni”, ricorda Pili, che aggiunge poi un altro fattore all’equazione, quello del flagging. Ogni vascello della shadow fleet può battere vari tipi di bandiera, dovendo quindi rispettare le regole dello Stato di riferimento. Dopo che una della “flotta ombra” arriva in un porto russo e si rifornisce di petrolio, ci sono due possibilità. Nel primo caso la nave inizia il proprio viaggio verso il Paese “cliente”. Nel secondo caso, molto più frequente, la nave incontra un’altra nave e trasborda il petrolio su di essa, che si dirigerà poi verso il Paese “cliente”. Il motivo è chiaro: così facendo si confondono le acque, rendendo più difficile capire da dove arrivi effettivamente il petrolio in questione.
Dietro questo secondo caso, c’è un grande lavoro di organizzazione. Per organizzare un incontro sul mare è necessario che le due compagnie delle due navi si accordino sullo scambio e sul prezzo, che dicano ai capitani dei rispettivi vascelli che si devono incontrare in una specifica area, che si organizzino tra di loro con un piano d’azione che dev’essere scritto e registrato per garantire la sicurezza dell’operazione. Pratiche che non si riguardano soltanto le petroliere, ma i vascelli di ogni tipo, secondo quanto previsto dai due grandi trattati internazionali per la sicurezza marittima Solas e Marpol. Questo per evitare che, durante la fase ship to ship, si verifichino collisioni, incendi, affondamenti e altri tipi di incidenti. “A tutta questa architettura descritta sino ad ora dobbiamo aggiungere l’assicurazione, la gestione delle informazioni e il passaggio del denaro. E tutto questo solo per due navi. Teniamo a mente che, in base ai dati disponibili, la shadow fleet è composta da minimo quattrocento vascelli, numero che nelle stime più ampie arriva a superare le 1350 unità. Per gestire un sistema così complesso, ci vogliono volontà, ma anche expertise”, sottolinea Pili. Mentre Armenzoni nota come questi numeri rappresentino “Il 20% dell’intera flotta mondiale di petroliere”.
Tante navi, quanto vecchie. “Nell’industria petrolifera le navi hanno un’aspettativa di vita media di circa quindici, sedici anni, passati i quali non vengono più considerate conformi agli standard di sicurezza. E praticamente tutte le navi della shadow fleet hanno sforato questo tetto. E non solo i vascelli sono vecchi e poco manutenuti, ma per mantenere ridotti i costi operativi (e incrementare il profitto) gli equipaggi sono ‘di serie B’ rispetto alle normali petroliere: meno esperti e qualificati, e quindi pagati di meno. Fattori che aumentano concretamente i rischi di incidenti. Fino ad ora c’è stato soltanto un caso, ovvero l’esplosione della Pablo avvenuta lo scorso anno, dove è morto un marinaio. Ma è una bomba ecologica che potrebbe scoppiare da un momento all’altro”, dice Armenzoni.
“Gli operatori di queste flotte fantasma hanno tutto l’interesse ad evitare che si verifichi un incidente simile”, continua Pili. “Se succede un dramma ecologico, gli attori politici occidentali sono obbligati a fare qualcosa, per evitare che si verifichi un altro episodio. Quindi sono gli stessi operatori della shadow fleet ad avere l’interesse a non far accadere nulla, così da poter continuare ad operare in relativa tranquillità”.
Oltre quello ecologico, c’è anche l’aspetto politico-economico. Secondo i dati della Kyiv School of Economics, più del 90% del petrolio russo viene commerciato senza rispettare il price cap. L’Urals dovrebbe essere venduto intorno ai 60 dollari al barile, adesso vien quotato intorno ai 70. Mentre l’Espo-blend arriva addirittura agli 80. D’altronde, l’intero sistema della shadow fleet si poggia proprio sul price cap, che sul piano pratico altro non è che un pezzo di carta compilato dal compratore e dal venditore di petrolio, dove si afferma che il greggio è stato commerciato sotto ai prezzi imposti dalle sanzioni. Ma nessuno, tranne loro, ha accesso al prezzo realmente pagato. E spesso la differenza viene coperta manipolando i costi logistici. Ma la situazione sta lentamente cambiando, dice Armenzoni: “Adesso, dopo due anni dall’imposizione delle sanzioni, si sta cercando di risolvere la cosa richiedendo come procedura di due diligence alle petroliere non il price cap, ma anche una lista dettagliata dei cosiddetti ‘costi ancillari’, dove si giustificano i costi di spedizione. E se questi costi vengono giudicati gonfiati, alla nave potrebbe essere impedito l’accesso al porto di Paesi che aderiscono al regime di sanzioni”.
Come contrastare dunque questo fenomeno? “La soluzione è a doppio fattore, serve un’azione congiunta delle istituzioni pubbliche e del mondo privato. Bisogna collaborare perché la scala dell’operazione è talmente grande che soltanto cooperando e unendo forze e strumenti si può ottenere un risultato concreto. Dev’essere uno sforzo comune. L’Unione Europea ha compiuto un primo passo includendo nell’ultimo pacchetto delle sanzioni contro ventisette navi affiliate alla shadow fleet”, asserisce Armenzoni.
Mentre Pili si sofferma sugli aspetti che riguardano il processo di segmentazione (che indica come la shadow fleet non sia gestita da una sola società, ma da molteplici società ognuna delle quali responsabile soltanto di una piccola frazione dei vascelli coinvolti nelle operazioni) che rende molto più difficile ogni tipo di approccio, all’assenza di database condivisi e pubblicamente accessibili sul fenomeno che si vuole contrastare. “Fino ad ora nessuno ha avuto sufficienti risorse per bloccare questo gioco. Se si vuole agire bisogna farlo a livello sovranazionale, ad esempio in sede Nato o in sede Ue. Si devono condividere le informazioni, renderle pubbliche, creare database accessibili. E si deve dare il potere di agire a categorie di professionisti in grado di fare qualcosa”.