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Tra i dubbi di Washington, Emirati e Cina si esercitano sopra allo Xinjiang

L’esercitazione tra Cina ed Emirati sullo Xinjiang racconta bene il multi allineamento del Golfo, ma anche i problemi su cui Washington pressa la regione e i suoi partner

La Cina e gli Emirati Arabi Uniti stanno svolgendo esercitazioni militari congiunte sui cieli dello Xinjiang, la regione nordoccidentale in cui il Partito/Stato ha da anni ordinato una stretta securitaria che sta obliterando l’identità delle minoranze musulmane locali (tra cui i turcofoni uiguri, vittime di una campagna di rieducazione come forma di sicurezza predittiva per evitare derive estremiste e radicalizzazioni separatiste). Stretta che l’amministrazione Biden ha definito “genocidio” — interpretazione che probabilmente non cambierà con un eventuale ingresso trumpiano alla Casa Bianca tra quattro mesi.

Le manovre, che replicano quelle identiche dello scorso anno, dureranno fino alla fine di luglio, e sono un segnale chiaro del rafforzamento dei legami di difesa tra Abu Dhabi e Pechino, nonostante le preoccupazioni di Washington. Un’indicazione di come gli attori del Golfo stiano strutturando il loro multi-allineamento stressando sia le relazioni con i grandi partner internazionali (come gli Usa), sia le narrazioni a uso più interno riguardo alla protezione del mondo mussulmano (incoerenza storica recente, con Abu Dhabi e Riad che per esempio applicano standard differenti quando si tratta di proteggere idealmente i mussulmani cinesi, anche perché condividono con Pechino la volontà di evitare interferenze negli affari interni reciproci).

Le esercitazioni aeree, denominate “Falcon Shield”, sono iniziate mercoledì e quest’anno trovano una maggiore importanza perché arrivano quasi a sintesi dei recenti incontri del Forum sulla Cooperazione tra Cina e Paesi arabi (Casr), del bilaterale tra i leader Mohammed bin Zayed (MbZ) e Xi Jinping, e della riunione formativa di ufficiali arabi e cinesi, che rappresentano quanto e come la Cina vuole il Medio Oriente, e non più soltanto sul piano economico-commerciale (energetico), ma anche inserendosi tra le dinamiche di sicurezza della regione — sebbene con estrema attenzione a non mostrarsi eccessivamente coinvolta. La volontà di organizzare esercitazioni congiunte per perseguire obiettivi comuni è infatti uno degli elementi che è emerso dai vari incontri sino-arabi, e Abu Dhabi vuole mantenere la primazia su questa dimensione — anche in competizione con il principale attore regionale, l’Arabia Saudita.

Nonostante gli Emirati siano storicamente acquirenti di hardware militare occidentale, negli ultimi anni hanno anche aumentato gli acquisti di equipaggiamenti cinesi — perché più economici e soprattutto privi dei vincoli etici solitamente posti dai governi occidentali che autorizzano le esportazioni delle aziende occidentali della Difesa.

Già queste dinamiche spiegano come la lettura a somma zero sia inadeguata alla descrizione del pensiero (multi-allineato appunto) del Golfo, in primis degli emiratini. Tuttavia, Abu Dhabi ha in gran parte accettato la richiesta di Washington di dare priorità ai legami tecnologici strategici con gli Stati Uniti. Anche se pure su questo campo le problematiche (e le teoriche incoerenze) restano.

C’è infatti un’altra vicenda di questi giorni che dà ulteriore dimensione alla situazione. Microsoft ha recentemente investito 1,5 miliardi di dollari nella holding company emiratina AI G42 (di cui controlling shareholder e chairman è Tahnoun bin Zayed, consigliere per la sicurezza nazionale degli Emirati e fratello del presidente MbZ), e l’operazione dell’azienda di Bill Gates avviene — non a caso — poco dopo che gli Emirati hanno accettato di ridurre la loro dipendenza dai chip cinesi.

La Casa Bianca ha comunque alzato l’attenzione su certi link, poiché restano le preoccupazioni che si potrebbe facilitare il trasferimento di tecnologie sensibili alla Cina. Nella sostanza, quella riduzione non soddisfa ancora Washington. G42, il cui Ceo è il cinese Peng Xiao, mantiene legami con aziende militari e tecnologiche della PRC, tra cui Huawei e il Beijing Genomics Institute (BGI), entrambe soggette a sanzioni statunitensi per il loro coinvolgimento con l’Esercito di liberazione popolare di Pechino e per violazioni dei diritti umani.

BGI è stata inserita nella lista delle entità soggette a restrizioni commerciali da parte del dipartimento del Commercio degli Stati Uniti per il suo presunto coinvolgimento nella raccolta e analisi di dati genetici utilizzati per la sorveglianza e repressione delle minoranze etniche, e in particolare proprio degli uiguri nello Xinjiang. Huawei è stata accusata di fornire tecnologie di sorveglianza che sono state utilizzate per monitorare e reprimere, anche la popolazione uigura nello Xinjiang. Tecnologie queste ultime che includono sistemi avanzati di riconoscimento facciale e altre forme di monitoraggio digitale che violano la gran parte dei concetti liberali dell’ordine internazionale basato sulle regole — condizione che tra le altre cose sta portando Berlino a una scelta di ban storico (su cui anche Roma dovrebbe riflettere?).

C’e poi anche una dimensione più geostrategica: il porto di Khalifa di Abu Dhabi ha sollevato da tempo preoccupazioni per la presenza di una struttura che sembra avere un utilizzo duale, sia civile che militare, cinese. Già nel 2021, le autorità statunitensi hanno rivelato che la Cina stava costruendo una struttura militare vicino alla base aerea di al-Dhafra, che ospita forze statunitensi. Questo ha portato alla sospensione delle negoziazioni sugli F-35 tra Lockheed Martin e gli Emirati (e stanno pensando di sostituirli con prodotti cinesi, anche a questo servono le esercitazioni?). Nonostante le rassicurazioni di Abu Dhabi che il progetto fosse civile, le implicazioni per la sicurezza rimangono una questione sensibile che fa parte del contesto.


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