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Quali scenari economici per una nuova presidenza Trump? Risponde il prof. Zecchini

Il confronto di personalità tra i due contendenti alla presidenza degli Stati Uniti ha fatto passare in secondo piano quello tra le due visioni sul futuro del Paese, ovvero tra una politica di potenza e di populismo a corto respiro, da un lato, e la prosecuzione delle politiche attuali di incentivo alla crescita e all’occupazione, di sicurezza, di protezione dell’ambiente e di collaborazione con gli alleati, dall’altro lato. Ecco i possibili scenari di un’eventuale presidenza Trump, con l’avvertenza che il personaggio è poco prevedibile

Sono sufficienti una decina di giorni nell’America del New England per rendersi conto di quanto infuocato sia il dibattito nell’opinione pubblica americana su temi che esulano dal torrido caldo che ha investito la costa atlantica degli Usa.

Dalla percezione diretta che si ha dall’incontro con gli americani, dai commentari nei media e dai segni tangibili che provengono dall’economia e dai mercati si trae un senso di grande agitazione nella democrazia americana che i media italiani raramente riescono a esprimere. Naturalmente, fanno eccezione questi giorni in cui la notizia e le reazioni all’attentato a Trump dominano tutti i media. Superato lo scalpore per questo evento, si direbbe che i fatti d’oltreoceano vengono solitamente portati all’attenzione popolare italiana dopo i problemi pressanti di casa nostra.

Così facendo si dimentica che è dallo scudo militare americano, seppure nel quadro della Nato, che dipende la sicurezza del nostro paese, come del resto dell’Europa, particolarmente in questo momento storico di aggressione russa verso un grande Paese europeo alle nostre porte. Nessun Paese europeo, neanche i due dotati di armi atomiche, sono in grado di provvedere alla loro sicurezza esterna senza l’appoggio americano di fronte a un attacco della Russia, specialmente se sostenuto dal gigante cinese.

Sul piano economico la dipendenza risulta minore, ma sempre importante perché l’America offre agli europei un grande mercato ad alto potere di acquisto, un notevole flusso di capitali, un redditizio sbocco per impieghi ed investimenti produttivi, e l’apertura all’avanzamento delle tecnologie in un rapporto a volte di stimolo a competere in ricerca ed innovazione, altre volte a cooperare.

Non è azzardato affermare che i prossimi tre mesi e mezzo possono condurre a una svolta nella democrazia americana in senso sempre più autoritario all’interno e sempre più orientato ad affermare all’esterno la supremazia degli interessi americani di breve periodo, con scarso riguardo verso quelli degli alleati. Il sistema della democrazia americana basato su pesi e contrappesi tra i poteri dello Stato è a rischio di soccombere all’autorità di un Presidente “piglia tutto”, che pur rimanendo nell’ambito delle regole costituzionali, svuota nella sostanza e sconvolge i principi a fondamento della Costituzione.

I semi di una simile svolta sono stati già piantati dallo stesso Trump durante la sua presidenza, portando alla Corte Suprema e ad alcune magistrature ordinarie i rappresentanti di un estremismo di cui si sono viste le più plateali manifestazioni nell’attacco al Congresso del 6 gennaio del 2021. Gli effetti si avvertono fino ai mesi correnti, quando una serie di giudici a lui favorevoli ha ridotto le possibilità di imputare Trump per i gravi reati commessi e, in linea con l’orientamento suo e di riflesso del partito Repubblicano, ha limitato i poteri delle agenzie federali responsabili della tutela dell’interesse collettivo, quali quella per la protezione dell’ambiente e quella per i mercati finanziari.

Le possibilità di una simile svolta sono in ballo nella contesa elettorale in corso sia per la Presidenza, sia per il controllo della maggioranza alla Camera e al Senato. La contesa vede al momento un acceso personalismo nel confronto tra un ex presidente, Trump, che dispone di un’ampia schiera di seguaci pronti a seguirne le indicazioni al di fuori di ogni ideologia o appartenenza di partito, e un ottuagenario presidente in carica, Biden, che mostra segni inquietanti di senilità. Le ultime performance di quest’ultimo nel confronto in diretta con la grezza arroganza e le falsità del primo, hanno messo in luce una decadenza mentale che peraltro era affiorata da tempo, ma veniva occultata negli interventi in pubblico mediante la lettura di testi preconfezionati. I ricorrenti lapsus e le dimenticanze hanno mostrato un’insufficiente capacità di governare la prima potenza militare ed economica al mondo, già adesso e a maggior ragione per il prossimo quadriennio. Benché la squadra di ministri della presidenza Biden sia di alto livello di competenza e in fondo l’autore delle sue politiche e anche il loro esecutore, la guida della persona al vertice dell’esecutivo è essenziale per determinare l’orientamento generale, i modi e i tempi di esecuzione e le relazioni con il Congresso e con i Paesi alleati.

Allo stato attuale, come testimoniato dai sondaggi e dai media, il Presidente uscente è indietro nei sondaggi pre-elettorali rispetto allo sfidante con un distacco che tende ad ampliarsi sull’onda emotiva e di polemiche seguita al fallito attentato. Le crescenti probabilità di vittoria di Trump hanno generato molta inquietudine tra le fila dei Democratici, con forti pressioni perché Biden rinunci alla candidatura. Si fanno i nomi, come possibili sostituti, della Vice Presidente, dei governatori della California e del Michigan, e di altri. Il Presidente, tuttavia, non mostra alcuna intenzione di mollare anche nel caso in cui fosse dato come sicuramente perdente.

Il confronto di personalità tra i due contendenti ha fatto passare in secondo piano quello tra le due visioni sul futuro del Paese, ovvero tra una politica di potenza e di populismo a corto respiro, da un lato, e la prosecuzione delle politiche attuali di incentivo alla crescita e all’occupazione, di sicurezza, di protezione dell’ambiente e di collaborazione con gli alleati, dall’altro lato. Se si sa molto su queste seconde, si sa invece poco su quelle che attuerebbe Trump, se non richiamandosi alle sue sparse dichiarazioni su alcuni capisaldi. Su questa base e sulla scorta degli interessi economici che lo sostengono, è bene addentrarsi su uno dei possibili scenari di un’eventuale presidenza Trump, con l’avvertenza che il personaggio è poco prevedibile.

Il tono di fondo sarà un arretramento dell’intervento federale nell’economia e una deregolamentazione per dare più spazio all’attività imprenditoriale e all’autonomia degli Stati. Saranno probabilmente smantellate le misure a favore dell’ambiente, si darà spazio all’attività petrolifera abolendo alcune restrizioni, minori sovvenzioni per il passaggio al trasporto elettrico, diversi freni alla potestà regolatoria delle agenzie federali indipendenti, e minori vincoli per la capitalizzazione delle istituzioni finanziarie. Si ridurrebbero, tra l’altro, le possibilità di ratifica americana dell’accordo internazionale Basilea III, con effetti sulla regolazione finanziaria in Europa, che per non trovarsi in difficoltà competitive potrebbe analogamente ritardare la sua applicazione.

Sul nodo cruciale di assecondare la crescita economica, la politica di bilancio avrà una diversa impostazione ma analoghi effetti propulsivi come quella attuale. Pur dovendo arginare un deficit federale che probabilmente raggiungerà quest’anno il 7% del Pil e continuerebbe a dilatarsi nei prossimi anni, saranno riconfermati i tagli fiscali che scadranno il prossimo anno a vantaggio principalmente degli investitori e i grandi capitali. Dal lato delle spese, aumenterebbero quelle per la difesa e sarebbero decurtate quelle sociali, a favore dell’assicurazione sanitaria diffusa, i sussidi per la disoccupazione e gli aiuti agli studenti. Ne risulterebbe che ben difficilmente il grande disavanzo di bilancio si ridurrà, con effetti, oltre che sul costo del debito, sull’impostazione di politica monetaria e sul livello dei tassi d’interesse guida. L’indipendenza della Fed nella condotta monetaria e il suo obiettivo di riportare l’inflazione attorno al 2% sarebbero a rischio. Il rinnovo della sua presidenza nel prossimo anno e alcune limitazioni al suo potere regolatorio potrebbero indurre a un allentamento delle politiche disinflazionistiche e mantenere l’ascesa dei prezzi su ritmi superiori all’obiettivo.

Il problema dell’inflazione tormenta la classe media e i lavoratori, nonostante l’ascesa dei salari nel periodo post-pandemia. Anche se l’inflazione si è attenuata, i livelli dei prezzi restano relativamente elevati in rapporto ai redditi di lavoro in misura chiaramente visibile su un ampio spettro di beni e servizi, dalla spesa al supermercato, agli affitti e ai servizi alla persona. Le tensioni sui prezzi lungi dal moderarsi potrebbero trarre alimento da altre misure su fronti diversi. In particolare, l’atteggiamento protezionistico avverso la concorrenza dei prodotti esteri renderebbe più care le importazioni e favorirebbe i produttori interni dai prezzi meno competitivi.

Si parla di un aumento del 10% delle tariffe su tutti i prodotti e addirittura del 60% su quelli provenienti direttamente ed indirettamente dalla Cina. La notevole connessione tra le imprese americane e il sistema produttivo cinese si allenterebbe con significativi danni per la competitività dei prodotti americani che incorporano componenti di fabbricazione cinese. Una frattura nell’interconnessione economica e finanziaria sarebbe difficilmente prevedibile, anche nel caso in cui le ritorsioni cinesi danneggiassero le imprese e gli investimenti americani in Cina, perché entrambi i Paesi hanno bisogno l’uno dell’altro e manterrebbero intense relazioni commerciali e finanziarie. Conseguenze analoghe si avrebbero per l’Europa, ma di minore intensità per via dell’alleanza strategica che lega le due aree e delle ridotte disparità in termini di posizioni competitive.

Una spinta all’inflazione da costi potrebbe risultare anche dalle misure di contenimento dell’immigrazione, in specie quella irregolare. L’afflusso di schiere di immigranti irregolari dal resto delle Americhe nell’ultimo quadriennio ha fornito all’economia americana un vasto serbatoio di forza lavoro a basso costo, che è servita a soddisfare la crescente domanda delle imprese frenando le richieste salariali. Un’interruzione dei flussi potrebbe ridare vigore alle richieste dei lavoratori specialmente in un periodo di crescita sostenuta e quasi pieno impiego delle risorse.

In questo scenario di politiche i rischi maggiori si concentrano sul riequilibrio delle finanze federali, sull’apertura del mercato interno, sul perdurare delle tensioni nei prezzi e di riflesso nei tassi d’interesse, sull’apprezzamento del dollaro e sul contrasto al cambiamento climatico. Rischi pure sul versante della sicurezza dei Paesi europei qualora fosse reso più condizionato l’intervento americano nel quadro della Nato. Per i Paesi europei e particolarmente per l’Italia, sarà necessario investire maggiori risorse nella difesa, distogliendole da impieghi più socialmente meritevoli. Si dovrà altresì tener conto di una nuova battuta di arresto nel dialogo nell’ambito del EU-US Trade and Technology Council, che avrebbe dovuto portare a una certa liberalizzazione dei rapporti commerciali. La collaborazione sarebbe più concentrata sui temi della sicurezza e della difesa, nonché sul contrasto dei disegni delle potenze ostili all’Occidente. L’Italia ha ben poco da guadagnare da un simile scenario e ne dovrà sopportare i costi, ma come visto in anni recenti, l’evoluzione politica americana rimane imprevedibile anche dopo le elezioni del 5 novembre.


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