Per il tribute al cinema degli “anime” di Isao Takahata (1935-2018), a cura della Lucky Red, si può ancora vedere “La storia della principessa splendente” (2013), l’ultimo film realizzato dal maestro giapponese candidato all’Oscar. Il disegno fonde tradizione giapponese e influenze europee, in una storia in cui i valori etici sono fondamentali
Per i giovani nati a cavallo tra vecchio e nuovo secolo, il cinema animato di Isao Takahata (1935-2018) ha accompagnato la loro infanzia e adolescenza.
Per tutto il mese di luglio quattro suoi capolavori, prodotti dal famoso studio Ghibli, fondato insieme a Hayao Myazaki, grazie a una meritevole iniziativa distributiva della Lucky Red, sono in ridistribuzione in sala. E sono tornati in sala anche i trentenni di oggi, insieme agli adolescenti nati negli anni Dieci, tutti per sognare con Takahata.
I quasi adulti hanno amato alla follia sicuramente “Pioggia di ricordi“ (1991, prodotto da Myazaki), la storia dell’impiegata ventisettenne Taeko che fugge dal lavoro in città non per viaggiare in Europa o in America ma per rifugiarsi in campagna e aiutare il cognato nella raccolta del cartamo. Per Taeko, e per noi spettatori, significa riscoprire i vivi colori dei fiori, la varietà degli uccelli, gli insetti, gli animali, le tradizioni locali come la coloritura dei tessuti ottenuta dai fiori e dai frutti selvatici. Quel luogo dove talvolta Taeko, da bambina, andava a trovare i suoi nonni.
“Pioggia di ricordi“, giunto in Europa poco dopo la caduta del muro di Berlino, la fine del comunismo in Europa, ci parlava della necessità di liberarsi anche dal lavoro a catena, dal fordismo, e di tornare a godersi la natura. In sottotraccia ci avvertiva di diffidare del capitalismo esasperato, come negli anni Ottanta commentava Papa Woytila: né comunismo né capitalismo senza cuore.
Sempre i trentenni di oggi si struggeranno, insieme ai piccoli della primaria, i primi nel rivedere e i secondi nello scoprire la struggente, romantica, delicata e priva di un consolatorio happy ending “Storia della principessa splendente“ (2014, ancora in sala sino a dopo domani: correte a vederlo).
Perché questa storia di un amore impossibile è diventato un cult?
Sicuramente per la delicatezza con cui gli sceneggiatori Isao Takahata e Riko Sakaguchi hanno trattato quello che probabilmente è il racconto più antico tramandatoci nella letteratura giapponese “Storia di un tagliatore di bambù (Taketori monogatari)”.
Ci hanno semplicemente raccontato il vero volto dell’amore. Ossia come bisognerebbe amarsi al di là delle differenze economiche, abbattendo le barriere sociali, e come la ricchezza non generi felicità. Concetti trattati nell’immaginario letterario e cinematografico da secoli, ma qui resi con una originalità di racconto stupefacente.
È vero che la “principessa”, così chiamata dal padre adottivo, è nata dentro una canna di bambù (come il nostro Pinocchio in un ceppo di legno), allevata da due anziani, poveri e buoni contadini senza figli (come Abramo e Sara), nata lì «come ha voluto il Cielo» (così nel testo originale e nella sceneggiatura) ma il suo destino appare, al contadino, subito nobile. Infatti, sempre il Cielo elargisce al tagliatore altri doni: da una canna usciranno gemme preziose; da un’altra fini abiti stupendamente colorati. È chiaro: la bambina sarà una principessa.
Dunque, appena adolescente, “Gemma di bambù”, come la chiamano da sempre i bambini e i ragazzi compagni di gioco, poiché ella cresce rapidamente, deve lasciare il villaggio insieme ai genitori. Il padre, con le gemme partorite dalla canna di bambù, ha acquistato un palazzo signorile nella capitale. La ragazza è triste perché lascia Sutemaru, un bel ragazzo di poco più grande, che nei giochi le ha insegnato molte cose e tanti nuovi vocaboli. Il ragazzo è già innamorato di lei, che lo considera il suo migliore amico, “fratellone” (nel doppiaggio) ma poi, solo dopo, troppo tardi, si accorgerà che forse era il suo amore.
Naturalmente, la vita in città e i finti rituali che la principessa deve imparare la rendono triste, soprattutto l’obbligo, come da tradizione, per le giovani principesse in attesa di marito, di strappare le sopracciglia, disegnarci sopra quelle artificiali, corte e spesse (vi ricordate della sposa del samurai, la splendida Machiko Kyö di Rashomon, 1950, di Akira Kurosawa?), oltre a colorare i denti di nero, per mostrare sempre compunzione nelle presentazioni, senza ridere.
Principessa si rifiuta di vivere una finta vita, piena di ipocrite convenzioni, e di sposare persone che non ama. Un giorno fugge via e torna al villaggio. In sogno rivede Sutemaru con il quale inizia un libero volo nei cieli, cantando come facevano da adolescenti. Poi tutto finisce. Ella deve terminare il suo viaggio sulla terra, tornare in alto, sulla Luna e, ci informa la voice over, dimenticherà quello che ha vissuto sul pianeta degli umani. La sta aspettando un carro celeste fatto di nubi, con altri esseri del Cielo. La principessa si sta allontanando nel cielo, la vediamo di spalle. Ma ecco, delicatamente, gira il capo verso la Terra: i suoi occhi, grandi e neri, secondo la tradizione degli anime nipponici, sono tristi…
La poetica di Takahata è una perfetta fusione tra poesia visiva e umorismo. Sul piano del disegno e del colore, dai toni delicati, egli usa la tecnica tradizionale dell’acquerello, ripensata secondo il suo stile dinamico, soprattutto per gli sfondi della natura. Tende, invece, a un cromatismo più vivo per tutto ciò che si muove in primo piano: personaggi e animali. Vi è anche, in alcuni passaggi narrativi, il ricorso alla china, di taglio espressionista, come in certi autori praghesi, quando va sottolineato un momento di tensione (come la fuga della principessa dal palazzo verso il villaggio).
Takahata costella il racconto – che è anche viaggio di formazione: l’arroganza del corrotto mondo degli adulti in contrasto con la purezza dei giovani – di felici soluzioni umoristiche. L’ironia con cui sono descritti i notabili pretendenti alle nozze, tutti smascherati per la loro disonestà e liquidati dalla principessa, è tagliente, come l’ascia dell’anziano padre.
Memorabile, nella prima parte, la scena dell’anziana madre che improvvisamente sente gonfiarsi il vecchio seno; ecco che prorompe dalla camicia una mammella, con un turgido capezzolo cui subito si attacca la bambina, che portava in braccio e piangeva per la fame.
Semplicemente sorprendente come ideazione, disegno e regia.