A due mesi dal voto che cambierà gli equilibri del mondo, i candidati alla Casa Bianca limano le proprie ricette in campo economico. E c’è un minimo comun denominatore: la Cina
Tra due mesi o poco più gli Stati Uniti sceglieranno il loro prossimo presidente, l’uomo, Donald Trump, o la donna, Kamala Harris, chiamato o chiamata a guidare la prima economia mondiale attraverso uno dei periodi più complessi della storia globale. E c’è da giurare che le proposte economiche messe in campo dai due candidati, faranno la differenza prima, durante e dopo il voto. Sul versante democratico, per esempio, l’agenda di Harris pare già abbastanza definita, così come chiaramente emerso dal suo piano per gli Stati Uniti presentato a Raleigh, in North Carolina, uno degli Stati chiave in cui Trump ha vinto nel 2016. Piano che l’attuale vicepresidente punta a mettere a terra, se eletta, in 100 giorni.
I 100 GIORNI DI KAMALA
Tutto parte da un divieto federale alle grandi aziende alimentari di aumentare il costo dei loro prodotti oltre una certa soglia, per poi arrivare a tre milioni di nuove case, con incentivi all’acquisto e allo stop al caro affitti. Non solo: Harris intende tagliare le tasse fino a 6 mila dollari per le famiglie con un neonato e ripristinare il Child tax credit voluto dall’attuale presidente americano Joe Biden e scaduto alla fine del 2021.
Nel programma della candidata democratica c’è la volontà di tagliare il costo dei prodotti alimentari e altri beni di prima necessità. Come? Imponendo un divieto federale senza precedenti alle grandi aziende. L’amministrazione Harris, nello specifico, adotterebbe un approccio normativo aggressivo alle fusioni e alle concentrazioni tra i maggiori produttori alimentari. Un’idea che qualche economista ha contestato perché, a suo parere, non colpisce le vere cause dell’aumento dei prezzi post-pandemia di Covid.
Quanto alle tasse, Harris ha assicurato che non intende aumentarle per gli americani che guadagnano meno di 400 mila dollari l’anno e che punta ad eliminarle sulle mance, idea proposta per la prima volta da Trump. Inoltre si elaboreranno norme per impedire aumenti esagerati degli affitti ed impedire agli investitori di Wall Street di acquistare case in blocco per rivenderle a un prezzo maggiorato.
L’AGENDA (BIS) DI TRUMP
Venendo a Trump, le sue ricette sono note e vanno tutte, o quasi, sotto il cappello di un protezionismo abbastanza muscolare. L’ex presidente, durante il suo primo mandato, ha giustificato l’aumento delle tariffe doganali citando problemi di sicurezza nazionale. A questo proposito, la Cina è la più colpita, con un dazio medio applicato sull’import salito dal 3% a quasi il 20%. Questa volta Trump, nel caso fosse rieletto, ha proposto di innalzarlo al 60% e, progressivamente, di eliminare tutte le importazioni di beni essenziali dalla Cina. A completare questo punto, l’import statunitense dal resto del mondo sarebbe soggetto a una tariffa di base del 10%. Se queste misure saranno attuate, secondo molti economisti, rappresenteranno un forte shock inflazionistico per il Paese.
Poi c’è il capitolo delle agevolazioni fiscali. Uno dei settori maggiormente beneficiari del piano di deregolamentazione di Trump è quello energetico. Il candidato repubblicano, a questo proposito, si è impegnato a sbloccare i permessi per trivellazioni e locazioni, a eliminare i limiti sull’export di gas naturale e a cancellare le norme sulle emissioni dei veicoli che, secondo la legge corrente, entreranno in vigore nel 2032.
LA VERSIONE DI POSEN
Foreign Policy, provando a tirare le somme, ha chiesto ad Adam Posen, presidente del Peterson Institute, un commendo alle due agende. Posen, parlando della questione migranti, spiega come la “significativa differenza” tra le politiche migratorie delle campagne di Trump e Harris, sostenendo che il piano di Trump di deportare 1,3 milioni di migranti farebbe aumentare l’inflazione e ridurrebbe la produzione. Ancora, il repubblicano “vuole un dollaro più debole, Harris non ha dichiarato di volerlo. Eppure, molte delle politiche di Trump rafforzerebbero in realtà il dollaro”. Sulla questione cinese, infine, Posen vede ben poca luce tra i due partiti, cioè scarsa differenza e teme che l’aggressività economica americana possa “creare delle politiche molto controproducenti”, per gli stessi Stati Uniti.