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Per l’Antitrust Usa Google è un “monopolista”. Pronto il ricorso dell’azienda

Un giudice distrettuale ha dato ragione al Dipartimento di Giustizia americano, che si era mosso contro la società di Menlo Park per il presunto strapotere nelle ricerche online. Si passerà per altri tribunali, ma la sentenza potrebbe avere influenza sulle altre Big Tech

La promessa di Google è che presenterà ricorso. Quanto deciso da un giudice della Corte distrettuale degli Stati Uniti per il distretto di Columbia, che ha emesso una sentenza storica stabilendo che Big G “è un monopolista e ha agito come tale per mantenere il suo monopolio” nella ricerca online, anche pagando altre aziende, confermerebbe che l’azienda “offre il miglior motore di ricerca ma conclude che non dovremmo essere autorizzati a renderlo immediatamente disponibile. A queste condizioni intendiamo presentare ricorso”, ha assicurato Kent Walker, presidente per gli affari globali di Google. Simbolico che a pronunciare la sentenza sia stato il giudice Amit P. Mehta – quanta differenza ci passa per una semplice lettera. Ma ancor di più quello che ha scritto nelle 277 pagine con cui ha riconosciuto le ragioni presentate dal governo americano, mettendo fine (per ora) a una questione che va avanti da anni.

Nel 2020, il Dipartimento di Giustizia aveva intentato causa per il predominio di Google nelle ricerche online, affermando che l’azienda aveva condotto quasi il 90% delle ricerche web. Lo ha fatto sborsando miliardi di dollari all’anno per diventare automaticamente il motore di ricerca su browser come Safari e Firefox, pagando quindi le rispettive detentrici come Apple (a cui nel 2021 ha versato 18 miliardi di dollari), Samsung, Verizon e via dicendo, acquisendo più dati degli utenti che gli hanno dato un vantaggio notevole. Una simile preoccupazione espressa anche dal ceo di Microsoft, Sadya Nadella, secondo cui il predominio di Google era tale da aver creato una sorta di “Google web” che aveva un rapporto “oligopolistico” con Apple. Un modus operandi che secondo lui avrebbe comportato una sproporzione anche nella corsa all’intelligenza artificiale.

Dopo dieci settimane di processo, le cose sembrerebbero essere andate così, con il giudice Mehta che ha affermato come Google abbia “accesso a una scala che i suoi rivali non possono eguagliare”. Non è ancora chiaro però cosa debba fare la società di Menlo Park dopo aver violato la Sezione 2 dello Sherman Act, se costretta a vendere una parte della propria attività o se dovrà semplicemente adeguarsi a un altro tipo di comportamento.

L’altra accusa che Washington ha mosso a Google era quella di aver aumentato il prezzo degli annunci pubblicitari oltre la soglia del libero mercato, testimoniando la sua forza. Queste inserzioni “hanno alimentato la crescita esponenziale dei ricavi di Google e gli hanno consentito di mantenere profitti operativi elevati e notevolmente stabili”, ha scritto il giudice Mehta nella sentenza.

La questione andrà ovviamente avanti, come già anticipato da Google. Bisognerà passare per altri tribunali prima di decretare la sua colpevolezza, ma secondo molti esperti la sentenza emessa ieri avrà un impatto sul mondo tecnologico. L’approccio statunitense è quello di procedere tramite sentenze – a differenza dell’Unione europea che invece preferisce regolare le Big Tech con le leggi – e quindi attraverso precedenti giudiziari. Ci sono altre cause aperte tra governo e aziende tecnologiche, tra cui Apple, Amazon e Meta. Così come Google, attesa da un nuovo processo dell’antitrust sulla tecnologia pubblicitaria.


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