Titoli ad effetto come quelli che parlano di un “lunedì nero” o rimarcano il lungo tempo trascorso dal giorno in cui, in Giappone, si registrò qualcosa di analogo – il 1987 – servono per vendere i giornali. Ma difficilmente forniscono una chiave di lettura in grado di fotografare quanto realmente sta accadendo. L’analisi di Gianfranco Polillo
Non c’è alcuna catastrofe dietro l’angolo, sebbene la borsa di Tokyo in un solo giorno abbia perso il 12,4 per cento. Recuperato, seppure solo in parte, il giorno successivo. Titoli ad effetto come quelli che parlano di un “lunedì nero” o rimarcano il lungo tempo trascorso dal giorno in cui, nel Paese del Sol levante, si registrò qualcosa di analogo – il 1987 – servono per vendere i giornali. Ma difficilmente forniscono una chiave di lettura in grado di fotografare quanto realmente sta accadendo.
Quella della maggior parte degli analisti è una memoria corta. Si è già dimenticato, archiviandola nel buffer del proprio computer, ciò che accadde nel 1840, con il boom delle ferrovie; o nel 1920 quando le prime automobili divennero un consumo di massa; o nel 1950 con l’avvento dei transistor elettronici; o, ancora nel 1980 con la commercializzazione dei primi home computer. Indubbiamente episodi lontani. Ma che dire allora del marzo del 2000, che passerà alla storia come il mese in cui la bolla delle dotcom deflagrò, annunciando quella catastrofe che, per fortuna, regredì, quasi subito, a semplice crisi passeggera?
Il fatto è che il capitalismo, da che mondo è mondo, ha questo modo erratico di svilupparsi. È come quell’onda che parte quasi in sordina. Si gonfia con il vento della speculazione fino a raggiungere un apice oltre il quale non può andare, trattenuta dalla stessa forza di gravità. Ed è allora che si abbatte trascinando con sé i più lenti. Coloro che hanno aspettato troppo, un po’ a causa della loro inesperienza, un po’ per la loro eccessiva avidità nel non voler perdere, salvo alla fine rimetterci l’osso del collo.
La New economy era nata nel 1994, con la quotazione in borsa della società Netscape, che aveva prodotto il primo browser commerciale per internet. Un’innovazione tecnologica talmente potente da far apparire l’intera manifattura precedente come abitata solo da ruderi. La cara e vecchia old economy. Le Dot-com companies (dal suffisso ‘.com’ dei siti attraverso i quali tipicamente tali società operavano) erano le nuove artefici del progresso e della rivoluzione informatica. Le leve che avrebbero cambiato il modo d’essere e di pensare dell’intero genere umano.
Ci si buttarono in molti. Anche perché non ci volevano molti soldi da investire. Le prime Dot-com sfruttavano l’intelligenza di piccoli nuclei. Non avevano grandi spese da affrontare, essendo tutto basato sulle capacità personali di qualche innovatore. Il richiamo – la moda, le meraviglie decantate dai media, l’effettivo contenuto innovativo di una tecnologia che, per alcuni versi, aveva del miracoloso – fu il vento che fece crescere l’onda della speculazione, grazie anche alla grande liquidità del mercato ed ai bassi tassi d’interesse. Che negli Usa erano inferiori al 5 per cento.
L’euforia (“irrazionale” secondo la definizione di Greenspan, governatore della Fed) fu il grande lievito che alimentò le aspettative di futuri e continui aumenti del valore dei titoli emessi dalle aziende del comparto. Senza guardare alle informazioni espresse dai tradizionali indicatori di bilancio: redditività, utili prodotti, indebitamento, beni materiali, disponibilità liquide, previsioni di crescita e via dicendo. L’importante non era valutare, ma partecipare alla grande abbuffata dei profitti maturati nel “campo dei miracoli” intestato al Gatto e la Volpe.
Proviamo ora a sostituire l’IA (intelligenza artificiale) alle Dot-com e vedremo che il prodotto finale non cambia. I primi investimenti in questo campo risalgono ad una decina di anni fa. Merito soprattutto di Silicon Valley, nel cuore verde della California. Anche in questo caso si trattò, all’inizio, di un investimento più che modesto di qualche milione, per raggiungere lo scorso anno un valore superiore a 500 miliardi di dollari. Nello stesso arco temporale, il numero delle società interessate allo sviluppo dell’IA passava da meno di 500 a 1.812.
C’è stata sui mercati la stessa euforia? Ovviamente in forme diverse, a causa della differente struttura dei mercati, ma qualcosa di simile si è manifestato. Basta vedere l’andamento dei principali indici azionari. Con il Nasdaq che prima del grande crollo, aveva totalizzato una crescita del 26,5 per cento dall’inizio dell’anno. O il Nikkei 225 del Giappone che nei primi sette mesi dell’anno aveva totalizzato guadagni superiori al 17 per cento. Quasi 10 volte il normale rendimento di un titolo di Stato.
In questo secondo caso c’era stata poi una complicazione ulteriore. Nei mesi passati la Banca centrale del Giappone, aveva rifiutato di alzare i tassi di interesse, nonostante l’inflazione si facesse sentire anche da quelle parti. I tassi erano rimasti negativi, secondo la logica del quantitative easing. Ne avevano approfittato i grandi giocolieri finanziari. Ottenevano prestiti in yen dalle banche giapponesi a interesse nullo o quasi. Investivano il ricavato negli acquisti dei titoli del Nikkei.
Rischio praticamente zero. Almeno fin quando la stessa Banca centrale non è stata costretta a cambiare politica, trasformando in positivo i precedenti tassi di interessi negativi. Scelta che aveva determinato l’immediato rialzo dello yen sui mercati, costringendo tutti coloro che si erano indebitati a rientrare precipitosamente, vendendo i titoli ancora in loro possesso. Da qui l’effetto valanga.
Rispetto alla Dotcom bulle, come accennato in precedenza, esistono tuttavia differenze di mercato profonde. Allora si doveva passare dalle mille piccole imprese, spesso solo individuali, a strutture produttive più solide. Passaggio che comportò il fallimento di circa il 50 per cento delle aziende presenti sul mercato, nel 2000. Ora invece le aziende in competizione si contano sulle punta delle dita. Aziende come Apple, Microsoft, Nvidia, Alphabet (Google), Amazon, Meta (Facebook) e Tesla, la cui capitalizzazione è debordante.
Si tratta, al tempo stesso, di aziende simili, ma non uguali. Ciascuna delle quali è caratterizzata da un proprio core business ed attività collaterali. Se la crisi dovesse andare avanti, anche al loro interno non potrà non scattare una sorta di resa dei conti, al fine di ottenere il miglior posizionamento sulla produzione delle principali tecnologie del futuro: dall’IA alla robotica; dal civile al militare e via dicendo.
Capire quindi, come evolverà la crisi sarà di notevole importanza. Al momento non resta che guardare a cosa farà la Fed, con un occhio attento all’evoluzione della situazione internazionale. I venti di guerra che spirano in Ucraina e nel Medio Oriente, non sono un buon viatico. Non lo sono per l’Occidente, ma nemmeno per i Paesi del vecchio blocco socialista: Russia e Cina. Proprio in questi giorni la Banca centrale delle Federazione Russa ha dovuto portare il Key rate (tasso di riferimento) al 18 per cento. Negli Stati Uniti, invece, si critica la Fed per averli mantenuti in una forchetta compresa tra il 5,25 ed il 5.50 per cento. Una differenza siderale che qualcosa dovrebbe pur dire.