Il consigliere per la politica estera della vicepresidente è nella lista di coloro che dovrebbero ricoprire un ruolo centrale nella prossima amministrazione democratica, qualora Harris dovesse vincere le elezioni di novembre. Pasquino, professore emerito di Scienza Politica che lo ha avuto come studente: “Crede fortemente in un’Ue più attiva”
Il primo risultato offerto da internet su Phil Gordon è il giocatore di poker statunitense, nato nella texana El Paso. Ma non è il Gordon di cui siamo alla ricerca. Piuttosto, l’interesse è per il consigliere di politica estera di Kamala Harris che, qualora la vicepresidente dovesse vincere alle prossime elezioni, giocherà sicuramente un ruolo centrale nella sua amministrazione. Un profilo che è un salvavita per l’Europa, preoccupata che un cambio alla Casa Bianca possa far riposizionare lo sguardo degli americani altrove – nel Pacifico, per esempio.
Con Gordon non sarà così. “Crede che l’Unione europea sia un attore importante che dovrebbe essere più presente sulla scena mondiale e più attiva e pensa che gli Stati Uniti dovrebbero sollecitare questo suo ruolo più incisivo, interloquendo con le autorità europee”, commenta con Formiche.net Gianfranco Pasquino, accademico dei Lincei e professore emerito di Scienza Politica, che negli anni trascorsi a insegnare alla School of Advanced International Studies ha avuto come studente proprio Gordon. “Solo per un corso”, precisa. “Il suo maestro è stato il grande David Calleo, professore di European Studies alla SAIS, studioso prolifico, spesso originale”. Per tornare al nostro indiziato, “tutti sappiamo che l’America guarda piuttosto al Pacifico e la candidata californiana (Harris, ndr) non fa eccezione”. Per questo “Gordon sarà un utile contrappeso” con l’Europa.
Come scrive Politico, vedere il diplomatico 61enne a Washington è un miraggio. Dipendesse da lui starebbe sempre nel Vecchio Continente: si trova talmente bene in Europa da appassionarsi persino al soccer (come il calcio viene chiamato Oltreoceano). Conosce quattro lingue europee, ha scritto una tesi su Charles De Gaulle, tradotto un libro di Nicolas Sarkozy e apprezza l’idea di Emmanuel Macron di un’Unione strategicamente più indipendente. Nei suoi pensieri non c’è però solamente la Francia.
Ha fondato il Center on the United States and Europe al Brookings Institute a Washington – presso cui è stato ricercatore senior per un decennio (1999-2009), concentrandosi soprattutto sui legami tra America e Medio Oriente – per approfondire i legami tra le due sponde dell’Atlantico, dove ha fatto molto spesso la spola. L’allora presidente Bill Clinton gli aveva affidato l’incarico di direttore per gli Affari Europei, poi con Barack Obama ha indossato i panni di assistente segretario di Stato per gli Affari Europei ed Eurasiatici fino al 2013. In questo ruolo ha cercato di dare all’Europa una visione globale, non solo attraverso la collaborazione con gli Stati Uniti ma anche con i Paesi dei Balcani e del Caucaso, sviluppando un rapporto più intenso con Russia e Turchia. Terminata la sua missione, Obama lo ha nominato assistente speciale per il Medio Oriente, il Nord Africa e la regione del Golfo.
Anche quando aveva rassegnato le dimissioni, oltre ad approfondire la sua conoscenza sui temi di sicurezza nazionale, Gordon ha continuato a supportare la politica del suo presidente. Come ad esempio sull’esigenza di raggiungere un accordo con l’Iran sul nucleare, ottenuto nel 2015 ma strappato da Donald Trump non appena entrato alla Casa Bianca. Durante l’amministrazione del tycoon è rimasto fuori dalla politica nazionale, occupandosi per lo più di Usa, Medio Oriente e l’Europa presso il Council on Foreign Relation, e lavorando per l’Albright Stonebridge Group, che si occupa di fornire consulenza in politica internazionale e mercati globali.
A richiamarlo a Washington ci ha pensato poi Joe Biden. Anzi, come detto, è stata la sua vice Harris a volerlo al suo fianco, affidandogli anche compiti complessi. Gordon non era un esperto del conflitto israelo-palestinese, ma negli anni ha approfondito la questione, motivo per cui l’attuale candidata democratica lo ha inviato nella regione durante l’ultimo conflitto per incontrare entrambe le parti. A dicembre ha guidato la delegazione americana per i colloqui sul dopoguerra, mentre lo scorso giugno è stato ospite del presidente israeliano Isaac Herzog. Hanno parlato di come arrivare a una de-escalation al confine nord con il Libano, dove regna la paura per i continui scambi di fuoco tra l’Idf e Hezbollah da una parte all’altra della Linea Blu, e ha espresso la sua preoccupazione per la situazione in Cisgiordania. Laddove si è recato il girono dopo per confrontarsi anche con il leader dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmoud Abbas, a cui ha rinnovato l’esigenza di continuare con le riforme.
Pochi giorni fa si è trovato a dover chiarire che Harris non è mai stata favorevole a un embargo sulle armi a Israele e che per la vicepresidente lo Stato ebraico ha diritto a difendersi. Allo stesso tempo, continuerà a chiedere la protezione dei civili a Gaza e a far rispettare il diritto internazionale. Ribadendo le stesse parole di Biden: “È giunto il momento di concludere l’accordo sul cessate il fuoco e di liberare gli ostaggi”. Che stia già facendo le prove per il dopo Jake Sullivan o Antony Blinken?