Alla generale credenza che l’investimento diretto dall’estero sia sempre un bene bisogna contrapporre un’attenta valutazione dei benefici e dei rischi per il futuro dell’economia. L’opinione del prof. Salvatore Zecchini
Il caso della vendita di Comau e quello a monte della strategia di Stellantis impongono un ripensamento sul ruolo del capitale straniero nel mondo delle imprese italiane. Stellantis ha ceduto il controllo di Comau, gioiello dell’automazione e della robotica italiane, a un fondo di private equity americano (One Equity Partners), parte di una categoria di investitori che mirano ad estrarre il massimo di valore dall’impresa per poi rivenderla.
La loro caratteristica è di accompagnare da vicino il management per allineare la gestione ai loro obiettivi di redditività e di incremento di valore. In un settore in cui la concorrenza è molto elevata e si basa su ricerca ed innovazione a getto continuo, questo passaggio di mani avrebbe senso per il Paese se preludesse a nuove ingenti iniezioni di capitale per finanziare l’avanzamento tecnologico e la capacità di competere con i giganti mondiali. La cessione dimostra, implicitamente, che né Stellantis né il grande e pavido capitalismo italiano hanno mostrato di volersi impegnare in una simile impresa, benché la tendenza su scala mondiale sia verso un impiego intensivo dell’automazione.
Il ricorso ai grandi capitali esteri, in particolare americani, appariva inevitabile sin dal 2021 quando Stellantis fu costituita, ma non è chiaro quali esiti potrà avere l’operazione nei prossimi anni, nonostante le dichiarazioni del Ceo di Stellantis che attribuisce alla cessione la funzione di “aiutare Comau a raggiungere la propria autonomia e rafforzare ulteriormente il suo successo a vantaggio di tutti i suoi stakeholder”. Evidentemente, Stellantis è invischiata nella difficile transizione verso la mobilità elettrica e non intende investire maggiormente in una tecnologia di punta, quale quella di Comau.
Si è, quindi, di fronte a un bivio cruciale. Da un lato, si potrebbe aprire per la società e anche per il patrimonio produttivo del Paese una nuova fase di innovazione e sviluppo durevole nel medio-lungo orizzonte. Dall’altro lato, si avrebbe una prospettiva di piccolo cabotaggio volto a conseguire nel breve periodo incrementi di profitti, per poi procedere a delocalizzazioni della produzione, ridimensionamento verso il basso degli investimenti, perdite di talenti e in generale di occupazione, con la cessione di quanto resta alla fine del percorso. In altri termini, l’alternativa principale è tra un impegno a una gestione di lungo respiro, improntata all’innovazione industriale, e un investimento a carattere puramente finanziario.
In questa seconda evenienza, Comau si aggiungerebbe all’elenco delle imprese di rilievo cedute agli stranieri che sono destinate, dopo qualche anno, o a una nuova cessione a imprenditori “industriali” oppure al trasferimento all’estero – in tutto o in parte – per una nuova gestione. La stessa Fiat, dopo la fusione con Peugeot e la costituzione di Stellantis, è un esempio di questa scelta: ne è prova il trasferimento della sede e della direzione strategica da Torino in Olanda. Ne sono seguiti in Italia il ridimensionamento della produzione, la chiusura di stabilimenti, la riduzione di personale e un minore investimento in R&I sul territorio, in breve un depauperamento del patrimonio industriale del Paese. Altri esempi sono, tra gli altri, i casi di Whirpool, Wärtsilä Italia (motori navali a Trieste), Pernigotti e gli oli Cirio-Bertolli-De Rica passati alla Unilever e poi ceduti alla spagnola Deoleo.
Alla generale credenza che l’investimento diretto dall’estero sia sempre un bene bisogna contrapporre un’attenta valutazione dei benefici e dei rischi per il futuro dell’economia. Nell’immediato vi sono benefici per la bilancia dei pagamenti con l’estero, l’importazione di nuove tecnologie, nuovo management e know-how, l’innovazione, l’apertura verso nuovi mercati, l’incremento degli scambi con l’estero, la formazione degli addetti e uno stimolo all’efficienza. I risultati delle multinazionali estere in Italia ne sono la prova.
Nel Paese operano oltre 17,6mila multinazionali estere che, pur rappresentando una quota marginale (0,4%) della popolazione di imprese, contribuiscono per il 20,3% al fatturato nazionale, per 17% alla formazione del valore aggiunto e per il 34,2% alle esportazioni di prodotti. Significativa anche la loro quota nell’occupazione (9,4%) che si traduce in una produttività media superiore alle altre imprese, con un distacco del 64%. Questo risultato è anche il frutto del loro impegno nell’innovazione: quasi un terzo (32,7%) della spesa nazionale in R&S nei settori industria e servizi è dovuto ai loro investimenti. La loro concentrazione, in particolare nella farmaceutica, chimica e automotive, conferisce maggiore solidità alla base industriale del Paese.
Secondo un test econometrico di causalità, condotto da Prometeia, utilizzando dati del periodo 1998-2011, l’acquisizione dall’estero ha prodotto in generale per l’impresa il miglioramento sostanziale della performance in termini di fatturato, occupazione e produttività. Giocano in questo senso la relativamente alta propensione a investire e innovare, insieme all’ampliamento della gamma dei prodotti. Al tempo stesso, si assiste al miglioramento dei sistemi gestionali, a trasferimenti di know-how nei due sensi, all’efficientamento dell’organizzazione e al potenziamento della partecipazione alle catene del valore. Dal punto di vista dell’investitore straniero l’acquisizione rappresenta nella maggioranza dei casi uno strumento per ampliare l’accesso ai mercati e ottenere maggiore valore dall’impresa acquisita sfruttando al meglio i suoi vantaggi comparati.
A fronte di tanti benefici, sull’altro piatto della bilancia vanno considerati i rischi di smembramento degli assets per scopi esterni allo sviluppo dell’impresa stessa, di svuotamento delle sue risorse migliori, di soppressione di un concorrente di mercato per raggiungere una posizione dominante o di colonizzazione in funzione del successo di altre imprese controllate.
Ne sono esempi i recenti casi fallimentari di Alitalia e dell’Ilva Acciaierie d’Italia. Nel primo caso, una prima cessione a un concorrente transalpino aveva prodotto il ridimensionamento della compagnia italiana e la riduzione al ruolo di alimentatore regionale di uno scalo esterno in funzione dei voli ben più lucrativi della compagnia investitrice. Nella seconda cessione, concernente una compagnia del Golfo arabo, la nomina di un nuovo management di provenienza estera, alla fine rivelatosi non all’altezza del compito di rilanciare lo sviluppo dell’Alitalia, insieme a scelte operative funzionali agli interessi della società controllante più che a quelli della controllata, hanno condotto alla definitiva liquidazione dell’impresa.
Nel caso dell’Ilva, la cessione a uno dei più importanti operatori del settore a livello mondiale non ha prodotto né la piena realizzazione dell’importante programma di investimenti preannunciato né il risanamento della gestione. È invece aumentata la richiesta di aiuti a carico della finanza pubblica, facendo leva tra l’altro sulle difficoltà derivanti da un mercato mondiale afflitto da carenza di domanda ed esuberante offerta asiatica a prezzi convenienti. Lo sbocco finale è stato inevitabilmente il commissariamento della compagnia e la ricerca di nuovi investitori.
Per il patrimonio produttivo italiano, il rischio proviene anche da acquisizioni estere con l’obiettivo principale di sfruttare marchi rinomati, o particolari talenti o competenze delle maestranze, o beni immateriali quali brevetti e disegni industriali a vantaggio di produzioni estere. Nel contempo non si investe abbastanza nel Paese per sviluppare queste ricchezze, col risultato che il bilancio del trasferimento di risorse risulta negativo per il sistema produttivo italiano.
Il trasferimento della direzione dell’impresa acquisita in una sede estera accentua il rischio per l’economia italiana di vedere che i suoi interessi a ottenere nuovi investimenti, innovazione e occupazione, siano subordinati a quelli di un’altra economia. Lo si è visto nell’atteggiamento di Stellantis, che ha fortemente ridimenzionato la produzione e gli investimenti in Italia, a vantaggio di siti in altri Paesi, e che si disfa di assets importanti per il Paese, come è Comau.
In definitiva, il rischio di fondo delle cessioni a investitori esteri nasce proprio dall’incertezza sugli effettivi obiettivi dell’acquisizione e sulle successive scelte strategiche. In particolare, trattandosi di imprese private, gli spazi per interventi pubblici di contrasto sono limitati, mentre l’iniziativa degli investitori italiani a farsi avanti e preservare l’“italianità” dell’impresa è carente.
Per le imprese a carattere strategico comprese in una lista di preselezionati comparti (difesa, telecomunicazioni, energia, trasporti e altro), lo Stato dispone dello strumento del golden power. In specie, ha titolo a vietare la cessione oppure a porre determinate condizioni all’acquirente per limitare i rischi per la sicurezza nazionale. Di fatto tende a impedire travasi di conoscenze all’estero e il depauperamento del patrimonio industriale nazionale. L’uso estensivo della disciplina ha determinato una moltitudine di notifiche delle imprese al governo per mettere al sicuro potenziali acquisizioni. Ma nel 2021, su 496 notifiche, solo su tre acquisizioni è stato usato il veto e su 23 sono state poste condizioni.
Date le sue particolari finalità e la normativa europea, lo strumento non si presta a un impiego generalizzato né appare applicabile al caso Comau. Lo Stato ha, tuttavia, a disposizione altri strumenti, in particolare le misure di incentivazione degli investimenti esteri graditi e di disincentivazione degli sgraditi, l’intervento di fondi di investimento a partecipazione pubblica, e l’acquisizione sul mercato di una significativa quota azionaria da parte di aziende pubbliche. Si tralasciano qui le politiche ostruzionistiche che alcuni Paesi applicano nei casi di acquisizioni poco gradite da parte di imprese estere, come è avvenuto anche in Italia nel passaggio del controllo di Tim a un operatore estero, peraltro dell’Ue.
Per essere efficaci, gli incentivi pubblici agli investitori stranieri devono essere sostanziosi e disegnati su misura rispetto alle esigenze dell’investitore che si vuole attrarre. Presentano, nondimeno, i difetti di essere costosi per la finanza pubblica e discriminatori nella misura in cui creano disparità di trattamento tra investitori nazionali ed esteri. Inoltre, devono essere compatibili con le limitazioni poste dalle regole comunitarie. Sono anche possibili disincentivi che il governo ha già disposto normativamente nel caso di disinvestimenti dell’operatore straniero.
L’intervento mediante fondi di investimento deve mirare a far sentire la voce dell’interesse nazionale nelle scelte dei consigli di amministrazione delle società partecipate. Questa esigenza implica un coinvolgimento diretto dell’operatore pubblico nelle decisioni imprenditoriali, che è un campo inadatto per funzionari pubblici non preparati a calarsi nell’ottica di un imprenditore. L’esperienza storica del fallimento delle partecipazioni statali dovrebbe aver insegnato molte lezioni.
Le medesime disfunzioni si avrebbero nel caso di una significativa partecipazione di un ente pubblico nel capitale delle imprese, qualora fosse usata per perseguire interessi contrastanti con il sano sviluppo della partecipata. L’esempio degli interventi della Cdp è, invece, indicativo di un impiego intelligente delle acquisizioni azionarie. Questo approccio è effetto anche della presenza del privato nella composizione del capitale dell’ente, con la conseguenza di una specifica attenzione all’efficienza e alla redditività della gestione.
La disponibilità di questi e altri strumenti non deve illudere che si possa vincolare efficacemente un investitore straniero a impegnarsi nel potenziamento dell’impresa acquisita e a non predare i suoi assets per rafforzare la competitività delle consorelle estere. Il governo dovrebbe, piuttosto, intervenire decisamente per migliorare le condizioni del fare impresa in Italia, come suo obiettivo precipuo. In sostanza, se Stellantis sposta le sue produzioni all’estero e cede i suoi assets migliori, vuol dire che è più conveniente innovare e produrre altrove.