Nonostante l’importanza dei programmi di collaborazione intergovernativa nel campo degli equipaggiamenti per le Forze armate, la normativa italiana non li copre adeguatamente se vi partecipano Paesi extra-Ue. Eppure basterebbe revisionare la legge 185/1990 per assicurare al nostro Paese una migliore difesa. Lo spiega Michele Nones, vicepresidente dell’Istituto affari internazionali, nella terza parte di una riflessione a puntate sulla Difesa europea
Una seconda “perla” della nostra normativa tocca i programmi di collaborazione intergovernativa per lo sviluppo, la produzione, il supporto logistico e l’addestramento del personale operativo e tecnico nel campo degli equipaggiamenti per le Forze armate. Le ragioni di questi programmi sono soprattutto tre:
- Sostenere insieme gli elevatissimi costi legati allo sviluppo dei nuovi moderni sistemi d’arma e poter contare sulle necessarie capacità tecnologiche e industriali, producendone una quantità in grado di alimentare le successive attività di supporto logistico e adeguamento tecnologico;
- raggiungere una maggiore comunalità dei mezzi in servizio fra i Paesi amici ed alleati in modo da potersi addestrare e operare insieme. Questo favorisce, inoltre, una maggiore efficienza delle attività di supporto logistico che nei sistemi più moderni sono diventate particolarmente complesse e costose;
- consolidare i legami con le nuove potenze regionali che si stanno presentando sullo scenario internazionale e che vogliono raggiungere progressivamente una maggiore autonomia delle loro capacità di difesa e sicurezza. Tutte stanno o sono già passate dalla fase dell’acquisto a quella del coinvolgimento nella produzione. Ma non basta più offrire loro qualche “offset” (spesso limitati alle attività più basilari e meno sofisticate). Molti chiedono di sottoscrivere anche accordi G2G, da governo a governo, con cui il Paese fornitore non solo garantisca la fornitura agendo in nome e per conto del Paese cliente ma favorisca anche un suo effettivo coinvolgimento nella produzione, nel supporto logistico, nell’adeguamento tecnologico e nell’addestramento.
Le diverse ragioni si combinano caso per caso e, quindi, per promuovere questi programmi di collaborazione servono strategie lungimiranti, una gestione politica e militare proiettata nel tempo e flessibile, normative specifiche che consentano di gestire tutte le problematiche connesse (politiche, diplomatiche, militari, finanziarie, o, industriali). Per l’Europa sembrano più rilevati la prima ragione (a livello collettivo) e la terza (a livello dei maggiori Stati membri). Per gli Stati Uniti sembra più importante la seconda nella particolare inevitabile accezione di voler consolidare il primato tecnologico e industriale americano, disincentivando soluzioni alternative. Per l’Italia valgono tutte e tre le ragioni (anche se l’ultima continua a non trovare concreta applicazione a causa delle limitazioni imposte dalla legge 157/2019 in materia di accordi G2G).
Ma, nonostante l’importanza dei programmi di collaborazione intergovernativa, la nostra normativa non li copre adeguatamente se vi partecipano Paesi extra-Ue. Quando col decreto legislativo 105/2012 è stata recepita la Direttiva europea 2009/43 sui trasferimenti intra-comunitari di equipaggiamenti militari, si sono introdotte le licenze generali e globali solo se le attività coinvolgono gli Stati membri. Non si è colta l’opportunità per allargarle ai Paesi membri della Nato e tanto meno ai Paesi amici.
Così, fin da allora, un programma fondamentale per le nostre Forze Armate come il velivolo F-35 viene gestito con un’interpretazione “generosa” dell’articolo della legge 185/1990, inserito con la legge di ratifica 148/2003 dell’accordo quadro (LoI) per favorire l’integrazione dei mercati della difesa dei sei principali Paesi europei. La norma ne consente l’estensione anche ad altri Stati, ma solo a condizione che vi siano accordi che rispettino il meccanismo procedurale previsto dall’accordo quadro. Peccato che tale meccanismo non sia mai stato implementato nemmeno fra i sei Paesi europei coinvolti e che lo stesso accordo quadro sia finito da anni su un binario morto e in una specie di limbo giuridico. E di sicuro gli Stati Uniti non sottoscriverebbero mai un accordo di questo genere.
A partire dal 2020, ci si è dovuti, inoltre, misurare con gli effetti della Brexit. Il Regno Unito ha cessato di essere uno Stato membro dell’Ue ed è rimasto solo un alleato in ambito Nato. Peccato che per questi ultimi la legge 185/1990 preveda solo delle semplificazioni procedurali e temporali, ma non le due licenze generali e globali che possono consentire la gestione dei programmi di collaborazione intergovernativa. Eppure con il Regno Unito ne stiamo gestendo alcuni di fondamentale importanza per noi, come il velivolo Eurofighter e il sistema missilistico Fsaf/Paams con il nuovo missile Camm-Er, oltre a partecipare insieme al programma del velivolo F-35. Ma, a parte i programmi in corso per i quali si può sostenere che il loro quadro giuridico sia rimasto lo stesso riconosciuto nella fase iniziale, adesso ci si deve misurare con il programma per il sistema aereo di nuova generazione Gcap, avviato dal nostro Paese insieme al Regno Unito e al Giappone, un Paese che non fa nemmeno parte della Nato.
Infine, altri problemi potrebbero nascere nel caso si riuscisse finalmente a sottoscrivere accordi G2G con Paesi extra-Ue. La premessa è che dovrebbero essere apportati alcuni piccoli cambiamenti alla norma primaria e, soprattutto, al relativo regolamento (inserito nel codice dell’ordinamento militare, decreto legislativo 66/2010) che non è mai stato adeguato ai cambiamenti introdotti dalla legge 157/2019. Ma, anche in questo caso, la legge 185/1990 non consentirebbe di gestire tali accordi con la necessaria efficienza e assicurando ai Paesi terzi coinvolti quel quadro di collaborazione strategica (e come tale proiettata nel tempo) che rappresenta l’essenza degli accordi G2G. Eppure basterebbe togliere un paio di righe all’articolo della legge 185/1990 in cui è stato introdotta nel 2003 la licenza globale di progetto per dare un inquadramento chiaro ed efficace alla gestione dei programmi di collaborazione intergovernativa a cui partecipiamo con Paesi extra-Ue per assicurare al nostro Paese una migliore difesa.
(continua)
(Si possono leggere qui la prima parte e la seconda parte di questa riflessione)