Nel trentesimo anniversario della sua scomparsa, un tributo alla figura di Giovanni Spadolini, politico e uomo di governo che ha lasciato tracce indelebili che andrebbero pienamente recuperate. L’opinione di Luigi Tivelli
Cosa dice la figura di Giovanni Spadolini ai contemporanei? Spadolini, di cui in questi giorni ricorre il trentesimo anniversario della scomparsa, avvenuta a meno di 70 anni, e di cui il prossimo anno ricorrerà il centenario dalla nascita, ci ha fatto dei lasciti unici, in larga parte ancora validi per la politica e la cultura odierna.
Come storico ha recuperato, ripercorrendo molti sentieri, il meglio dei filoni del pensiero liberal democratico, spesso attingendo ai grandi uomini del Risorgimento, a Gobetti e ai tanti pensatori liberal democratici. Una cultura liberal democratica che sarebbe, oggi più che mai, fondamentale per accompagnare e sostenere le molte politiche pubbliche, spesso un po’ ballerine, che non seguono ordini giusti di priorità e si perdono man mano per strada.
Spadolini, poi, come politico e uomo di governo, ha lasciato tracce indelebili che andrebbero pienamente recuperate. Non a caso, voluto da Aldo Moro e Ugo La Malfa nel governo Dc-Pri del 1974, ministro senza portafoglio per i beni culturali, ha fondato, apprestando una seria legge istitutiva, quello che è oggi il ministero della Cultura, tracciando un solco che andrebbe meglio recuperato. Non a caso, sin dall’avvio del governo Meloni, l’attuale ministro della cultura Gennaro Sangiuliano ha dichiarato di volersi rifare all’insegnamento di Giovanni Spadolini.
Tracce indelebili le ha poi lasciate in qualità di ministro della Pubblica istruzione e dell’università, cercando di superare il monopolio pansindacale di quel ministero, purtroppo ancora oggi sostanzialmente governato da una perniciosa sindacatocrazia. Spadolini, poi, è stato in tutte le sue attività un grande talento, sempre selezionato e preposto ai vari incarichi di governo (sarebbe poi stato, nella seconda metà degli anni ‘80, più volte ministro).
C’è un altro fondamentale insegnamento liberale che risale alla Destra storica. Un insegnamento che già si trova nelle impareggiabili pagine di Silvio Spaventa ne “La giustizia dell’amministrazione”, tradotto in una fondamentale norma costituzionale, come l’art. 97, che sancisce la separazione tra politica e amministrazione. Un articolo che prevede l’imparzialità dell’amministrazione, accompagnato dal successivo art. 98, secondo cui i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della nazione.
Forse da qui è partito Alberto Ronchey quando, mutuando il concetto dal linguaggio urbanistico, coniò la parola “lottizzazione”. Il modello della lottizzazione è l’esatto opposto del modello liberale, le cui tracce si trovano non solo in Silvio Spaventa ma anche in tanti pensatori liberali e liberal-democratici, come Luigi Einaudi, Giovanni Spadolini, Ugo La Malfa e molti altri.
L’Italia è strapiena purtroppo di lottizzati, non solo nella Rai, che fu l’ambito che Ronchey, come poi mi confidó, studió di più per coniare quel concetto. Già a suo tempo (ricordo tanti dialoghi quando era ministro della Cultura nel governo Ciampi del ‘93) era profondamente intristito dal quel successo che assumeva sempre più quel concetto di lottizzazione. L’Italia dei lottizzati è un fenomeno diffusissimo, al centro come in periferia, nelle Regioni come nei comuni.
Ma ancora più significativo è il messaggio che viene ai contemporanei dallo Spadolini presidente del Consiglio nel 1981. Incaricato dal Presidente della Repubblica di allora, Sandro Pertini, di dare una risposta al gravissimo scoppio della questione morale emersa con la lista P2, individuó presto le tre emergenze fondamentali del Paese: quella morale, quella economica e quella istituzionale. Non a caso fu il primo a cercare, tramite un decalogo istituzionale, fatto di piccole e medie riforme, di rafforzare la figura del presidente del Consiglio e il ruolo del governo. Non pensando certo a forme di elezione diretta, ma alla modifica di quei congegni che finivano per debilitare la figura del Presidente del Consiglio. Un decalogo istituzionale in larga parte ancora attuale.
Spadolini finì per soccombere come presidente del Consiglio, proprio per fattori legati all’emergenza economica. Fu quella che lui definì la “lite delle comari”, tra due grandi personalità come l’allora ministro del Tesoro, Nino Andreatta, e l’allora ministro delle Finanze, Rino Formica, a segnare sostanzialmente la fine di quel governo.
Ma Spadolini, poi a lungo ministro della Difesa e grande Presidente del Senato, altro ruolo in cui ha lasciato segni indelebili, ha sempre sostenuto e rilanciato un valore di fondo di impronta liberale e liberaldemocratica quale quello del merito, che lui incarnava al meglio. Un valore recuperato in qualche modo da Giorgia Meloni, ma che non mi sembra essere adeguatamente declinato, né per il funzionamento dell’istruzione pubblica, né per la selezione delle cariche pubbliche, né per la conduzione della pubblica amministrazione.
Il messaggio di fondo lasciato però da Spadolini è come e quanto la cultura liberal-democratica debba informare la guida di una moderna democrazia liberale. Un messaggio che in qualche modo recuperó Silvio Berlusconi. Per Spadolini, infatti, la cultura liberal-democratica era quella propria di “un’Italia di minoranza”, un’Italia della ragione. Berlusconi ebbe il merito – venute meno le due grandi chiese, democristiana e comunista, che avevano occupato la scena della società italiana -, di fare della cultura liberale una cultura di maggioranza, quella che univa l’area moderata.
È da chiedersi oggi quanto di questa impronta, in qualche modo liberale, attribuita da Berlusconi alla maggioranza politica che guidava e ai suoi governi, sia andato disperso. Sembra che Meloni ancora fatichi ad andare un po’ oltre la fiamma del suo simbolo e oltre il Tolkien di turno. Ecco allora la crucialità del messaggio di Giovanni Spadolini, che aveva studiato ampiamente anche l’ala conservatrice del liberismo, a cominciare dall’esperienza della Voce di Papini e da Giuseppe Prezzolini.
Sarebbe il caso che finalmente nel Pantheon ideale di Meloni emergesse la componente migliore del liberalismo, magari a impronta conservatrice. Non credo che un Pantheon basato su Tolkien o su una cultura missina o post-missina possa aiutare a governare una società complessa. Credo sia questo il messaggio di fondo trasmesso da Spadolini, cui poi ha dato un senso maggioritario Berlusconi, e che Meloni dovrebbe assolutamente recuperare.