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Gli Usa ammettono che con gli Houthi non va bene

Gli Houthi non sono scoraggiati dalle missioni militari, ma mancano anche politiche per affrontare il problema. E intanto grava il peso di un loro disastro ambientale sulla destabilizzazione dell’Indo Mediterraneo

Il Mar Rosso ha avuto un posto di primo piano nella “lunga e amichevole” conversazione telefonica di ieri tra il vicepremier e ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, e il segretario di Stato americano, Antony Blinken. La situazione lungo il corridoio indo-mediterraneo tra Suez e Bab el Mandeb sta tornando centrale negli affari internazionali, perché è evidente che se l’obiettivo delle missioni militari anglo-americana ed europea è quello di dissuadere in qualche modo gli Houthi, allora per il momento non è stato raggiunto.

Basta pensare per esempio che la M/V Sounion è in fiamme dal 23 agosto, incontrollata dopo che l’equipaggio si è messo in salvo dall’attacco dei miliziani yemeniti, che dicono di agire come rappresaglia contro le azioni di Israele nella Striscia di Gaza. Altro tema del dialogo tra Tajani e Blinken, altro obiettivo — cessate il fuoco, tregua, de-escalation, pace — non raggiunto, mentre ci avviamo verso il primo anno di guerra israeliana contro Hamas.

Il caso della Sounion è emblematico perché racconta che la situazione con gli Houthi sta peggiorando e questo potrebbe essere stato il colpo più grosso e dannoso messo a segno dai miliziani. I quali, vale la pena ricordarlo velocemente, otto anni fa hanno iniziato una guerra civile, spaccato in due il Paese, disseminato fame e caos, e adesso negoziano sul futuro dello Yemen — da una posizione di forza, dimostrata anche con questa campagna di attacchi ancora irrisolta dopo dieci mesi.

Sono al lavoro le risorse operative di EuNavFor Aspides, la missione europea che Tajani sottolinea sempre essere “solo difensiva” (ossia gli Houthi colpiscono i cargo anche europei, come la greca Sounion, e le navi militari dei Paesi Ue si limita a cercare di intercettare i missili e i droni lanciati dagli yemeniti). Fanno sapere che sulla nave ci sono incendi in diverse posizioni: si vedono dal ponte principale. Per fortuna ancora però non c’è stata alcuna fuoriuscita di petrolio e la nave, piena di 150mila tonnellate di greggio traportato, resta ancorata nelle acque internazionali del Mar Rosso meridionale e non vaga alla deriva.

È un dettaglio importante, perché tra l’altro mesi fa un’altra nave colpita dagli Houthi, la Rubymar, perse l’ancoraggio e nel suo vagare la stessa ancora tranciò tre cavi sottomarini — che lasciarono per diversi giorni alcune aree senza internet. Ora la Sounion è considerata “una minaccia seria e imminente di inquinamento regionale” e si corre per “scongiurare una crisi ambientale catastrofica”. È in corso la valutazione della situazione e dal quartier generale di Aspides dicono che le forze della missione sono “pronte a facilitare qualsiasi linea d’azione”. Significa che le unità navali come l’italiana Andrea Doria (l’Italia ha il ruolo di force commander della missione) forniranno protezione anche all’intervento di recupero per salvare la nave — perché è successo in altri casi che gli Houthi abbiano preso di mira chi provava a intervenire in soccorso.

La Sounion non aveva chiesto di essere scortata da Aspides, ma ha poi richiesto soccorso alla missione europea una volta colpita, e un’unità francese sotto bandiera Ue ha poi provveduto a portare l’equipaggio evacuato a Gibuti (il porto più vicino). È sostenibile che il transito lungo il più importante lineamento della connettività geoeconomica tra Europa e Asia sia vincolato alla scorta militare? Sia in termini di costi netti, di sostenibilità ambientale, di capacità politica questo genere di attività sta diventando sempre più gravosa (e insopportabile). In passato le attività di Aspides hanno evitato altri incidenti, ma per quanto può continuare?

Il viceammiraglio George Wikoff, che dirige gli sforzi navali statunitensi in Medio Oriente, ha condiviso la sua valutazione schietta mercoledì 7 agosto parlando via videocall dal Bahrein, quartier generale della Quinta Flotta del Pentagono. Secondo lui non solo gli attacchi e gli sforzi difensivi statunitensi hanno fatto poco per cambiare il comportamento degli Houthi, ma sembra improbabile che il gruppo sarà influenzato dalla forza militare. Almeno a questo livello di ingaggio.

Si parla di “shock absorber” e di come l’intervento armato sia stato ammortizzato dagli Houthi. Ed è così per quello anglo-americano, che ha anche una compente offensiva (operazione “Poseidon Archer”), sebbene abbastanza soft, contro i sistemi di attacco degli Houthi. Figurarsi di quello puramente difensivo europeo. “Abbiamo certamente degradato la loro capacità. Non c’è dubbio su questo. Abbiamo degradato le loro capacità”, ha detto Wikoff. “Tuttavia, li abbiamo fermati? No”.

Anzi, stanno emergendo lineamenti di cooperazione con Hezbollah, milizia libanese che con gli Houthi condivide il collegamento all’Iran — dante causa, fornitore di armamenti e know how, coordinatore di alcune attività, sebbene entrambe le organizzazioni preservino una loro buona aliquota di indipendenza. “È una lotta che ingaggiamo ogni giorno per cercare di capire where are we on the meter per quanto riguarda la stabilità nella regione”, ha detto Wikoff.

Ancora: “È molto difficile trovare un centro di gravità centralizzato che possiamo […] usare come potenziale punto di deterrenza. Quindi, cercare di applicare una classica politica di deterrenza in questo particolare scenario è un po’ impegnativo”. Il problema è che negli anni l’Occidente ha sviluppato pochissima influenza sugli Houthi, ed è improbabile che attacchi aerei puntuali li scoraggino, perché sono abituati alla guerra, hanno un’alta tolleranza per le vittime, sono altamente adattabili.

Di più: non hanno necessità di usare armi troppo sofisticate (anche se hanno sparato dei missili balistici terra-mare), ma anche con sistemi più semplici possono creare effetti devastanti. Sono la dimostrazione che un gruppo non statuale mediamente armato può disarticolare la catena geoeconomica globale, si sentono un esempio per altre realtà, vogliono dimostrare di poter andare a avanti, anche perché credono di avere la protezione divina alle loro istanze — o almeno questa è la narrazione con cui le raccontano a proseliti, usando le azioni contro il da sempre propagandato nemico occidentale come forza per arricchire il consenso.

“La nostra missione rimane quella di distruggere le loro capacità e cercare di preservare una certa parvenza di ordine marittimo mentre diamo l’opportunità di sviluppare una politica contro gli Houthi, ha detto Wikoff — politica mancante perché si pensava che gli Houthi fossero un problema locale, micro-regionale, e non globale come sono diventati.

“Nonostante la minaccia presentata dagli Houthi, che hanno anche condotto almeno un attacco fatale con droni armati contro Israele, i funzionari statunitensi e alleati non hanno, ad oggi, identificato una combinazione di passi militari e diplomatici per porre fine alla campagna Houthi”, scrive il Soufan Center in una delle sue analisi quotidiane. Gli Houthi hanno dichiarato che solo la fine della guerra di Gaza sarà sufficiente per soddisfare le loro condizioni per porre fine ai loro assalti, ma è credibile?

La necessità di una tregua a Gaza è importante anche per verificare cosa muove gli Houthi, che intanto potrebbero aver accettato una pausa puntuale per permettere di spostare la Sounion al porto di Gedda — decisione presa pensando a quel consenso, per evitarsi il peso di un disastro ambientale che graverebbe sulle coste yemenite, saudite, del Corno ed egiziane.



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