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Il futuro della guerra è qui. Cosa deve fare il Pentagono secondo Foreign Affairs

Con un articolo firmato dall’ex ceo di Google e dall’ex capo di stato maggiore Usa l’esortazione agli apparati statunitensi perché si faciliti la transizione verso i nuovi paradigmi bellici che si stanno delineando. Per evitare di perdere la competizione con gli attori revisionisti

“L’America non è pronta per le guerre del futuro. E sono già qui”. Un titolo (con annesso sottotitolo) che potrebbe risultare allarmistico e volutamente esagerato, come già altri lo sono stati nei mesi e negli anni precedenti. Ma se a prendere questa posizione piuttosto netta sono un ex capo di stato maggiore delle forze armate americane e l’ex ceo di uno dei colossi tecnologici mondiali, il peso relativo aumenta in modo esponenziale.

Con un articolo scritto a quattro mani pubblicato su Foreign Affairs, Mark Milley (già a capo del Joint Chiefs of Staff dal 2019 al 2023, attualmente visiting professor all’Università di Princeton e distinguished fellow presso la Georgetown University School of Foreign Service) ed Eric Schmidt  (presidente dello Special Competitive Studies Project,  ex Ceo e presidente di Google, nonché coautore, con Henry Kissinger e Daniel Huttenlocher, di “The Age of AI: And Our Human Future”) stressano il fatto che gli Stati Uniti non abbiano avviato con sufficiente slancio il processo di adattamento ed innovazione della loro struttura militare, in una particolare fase di transizione che stravolgerà i caratteri del warfare per come l’abbiamo conosciuto sino ad ora.

I campi di battaglia del conflitto in Ucraina e degli scontri in Medio Oriente, così come le guerre civili in Myanmar e Sudan, fino alle operazioni condotte da gruppi di attori non statali come Isis o gli Houthi: tutte realtà che evidenziano il ruolo centrale che droni e intelligenza artificiale giocano già oggi, ma che diventerà ancora più centrale nelle guerre del futuro. Eppure, secondo gli autori Washington non sta reagendo con sufficienti energie alle evidenze che emergono dai teatri di guerra di tutto il globo. Specialmente se paragonati alle “potenze revisioniste”.

“Nessuno Stato è completamente preparato per le guerre future. Nessun Paese ha iniziato a produrre in scala l’hardware necessario per le armi robotiche, né ha creato il software necessario per alimentare completamente le armi automatizzate” affermano gli autori, che però poi notano come “alcuni Paesi sono più avanti di altri. E purtroppo gli avversari degli Stati Uniti sono, per molti versi, all’avanguardia”. Da una parte c’è la Russia che, sulla base delle esperienze acquisite in Ucraina, ha aumentato drasticamente la produzione di droni e ora utilizza i veicoli senza pilota efficacia sul campo di battaglia con un’efficacia molto superiore rispetto a prima. Dall’altra c’è la Cina, che domina il mercato globale dei droni commerciali (l’azienda cinese Dji controlla circa il 70% della produzione globale di questi sistemi), e si è dimostrata particolarmente abile (anche grazie alla sua struttura di potere autoritaria, secondo quanto suggeriscono Milley e Schmidt) nell’introdurre cambiamenti e adottare nuovi concetti operativi all’interno della propria struttura militare. Di fronte a queste evoluzioni, le capacità militari del Pentagono rischiano di divenire rapidamente obsolete. Il momento dello “Shock and Awe” e della quasi assoluta superiorità tecnologica americana è passato, e una reazione è necessaria.

Fortunatamente, anche nel settore dell’IA gli Usa continuano (per ora) a dominare la corsa allo sviluppo. Ma altri passi devono essere compiuti, secondo Milley e Schmidt. A partire dal rivedere i processi di acquisizione di software e armi, considerati “troppo burocratici, avversi al rischio e lenti nell’adattarsi alle minacce future in rapido sviluppo”. In particolare, i due autori avocano una contrazione dei cicli di approvvigionamento decennali, che possono vincolare il Pentagono a particolari sistemi e contratti per molto tempo, anche dopo che l’evoluzione della tecnologia sottostante. E ancora, ampliare il pool di aziende a cui affidare i contratti di procurement militare. “Nel 2022, Lockheed Martin, RTX, General Dynamics, Boeing e Northrop Grumman hanno ricevuto oltre il 30% di tutti i contratti del Dipartimento della Difesa. I nuovi produttori di armi, invece, non hanno ricevuto quasi nulla. L’anno scorso, meno dell’uno per cento di tutti i contratti del Dipartimento della Difesa è andato a società giovani, che in genere sono più innovative delle loro controparti più grandi. Queste percentuali dovrebbero essere molto più equilibrate. È improbabile che la prossima generazione di droni piccoli ed economici sia progettata da aziende tradizionali del settore della difesa, che sono incentivate a produrre apparecchiature sofisticate ma costose. È più probabile che vengano creati come in Ucraina: attraverso un’iniziativa governativa che sostiene decine di piccole start-up”.

A cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo la Royal Navy ha capito di doversi sottoporre a una profonda trasformazione dovuta allo sviluppo di nuove tecnologie per mantenere la propria superiorità sui propri competitor. Oggi, le forze armate americane si trovano in una situazione molto simile, per svariati fattori. E se non si preparano per tempo all’annunciato “grande balzo in avanti” (riferimento non troppo casuale), rischiano di dover cedere il passo a nuovi attori più performanti. Con tutte le conseguenze del caso.


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