L’attacco alla base irachena di al Asad riapre il problema Iraq. Gli americani vorrebbero uscire dal Paese, ma la loro presenza è fondamentale per una serie di equilibri che toccano Israele, Iran e il disordine regionale
Mentre gli Stati Uniti cercano di disinnescare lo scoppio di un conflitto regionale – legato alla rappresaglia iraniana arrivata all’ora zero e la preoccupante contro-reazione israeliana – il rischio di apertura di nuovi fronti si fa sempre più concreto. Se quello libanese ormai è attivo (e mai sopito) dal 7 ottobre – data di inizio delle ostilità attuali, con l’attacco sferrato da Hamas – quello iracheno è tornato, dopo mesi, a essere sensibilizzato.
Ieri, la base militare di al Asad in Iraq è stata colpita da un attacco missilistico, provocando il ferimento di diversi soldati statunitensi (che utilizzano da anni il complesso iracheno). È l’effetto diretto delle tensioni attuali, dimostrazione di come potrebbe essere un futuro a breve termine nella regione. L’ultimo attacco significativo contro le truppe americane presenti sul territorio iracheno era avvenuto a febbraio 2024: durante quell’episodio, diverse truppe statunitensi sono state ferite in un un altro raid aereo sempre contro la base di al Asad.
Sono oltre cinque mesi che i gruppi armati sciiti – tutti collegati, con vario grado di coordinazione, al Corpo dei Guardiani della Repubblica islamica, i Pasdaran – non colpivano le postazioni statunitensi, dopo che dall’attacco di Hamas avevano compiuto centinaia di raid con cadenza più o meno giornaliera. Attacchi condotti con razzi e missili a media gittata, e con droni esplosivi, Made in Iran, e che non hanno arrecato eccessivi danni se non in un’occasione: quando fu colpita la Tower 22, postazione militare al confine trilaterale tra Siria, Giordania e Iraq (e il Pentagono eseguì per rappresaglia un raro bombardamento tra le postazioni dei gruppi iracheni).
Al momento in cui si scrive quest’analisi, l’attacco di ieri sera su al Asad non è ancora stato rivendicato, ma è totalmente plausibile pensare sia stata una delle milizie irachene connesse ai Pasdaran – se non più di una, tramite un’azione cooperata. Questo coordinamento è l’aspetto principale sul piano tattico-strategico, perché è il volto reale della minaccia. Se le milizie mettono da parte fisiologiche divisioni interne e iniziano – magari su sensibilizzazione iraniana – ad agire in modo congiunto e compatto, allora significa che il fronte è realmente pericoloso.
Lo hanno già fatto: negli anni bui del dominio califfale su metà dell’Iraq, i Pasdaran crearono le Forze di mobilitazione popolare, un’insieme di milizie che difese Baghdad dallo Stato islamico. In quel periodo, le milizie – che ai tempi della guerra d’Iraq erano meno forti e organizzate ma protagoniste degli attentati contro le forze occidentali – lavoravano anche insieme agli americani, sebbene indirettamente, nell’ottica di sconfiggere un nemico comune. La vittoria ha portato a esse grande popolarità e controllo territoriale de facto.
Quella popolarità la stanno spendendo per creare pressioni, istituzionali e diplomatiche, ma anche militari e pseudo-terroristiche, affinché gli americani escano dal Paese. Questione che incrocia i desiderata di Washington: finito (male) l’Afghanistan, l’Iraq è il simbolo delle “endless wars” contro cui Donald Trump si è sempre scagliato, consapevole di intercettare i sentimenti di una vasta fetta dell’opinione pubblica di ogni colore. Le amministrazioni Obama prima e Biden poi hanno lavorato per questo obiettivo, ma senza concreti successi. Prima c’era da sconfiggere i baghdadisti, ora c’è stata la guerra post-10/7 che hanno imposto al Pentagono di spingere per maniere le postazioni.
La realtà è che, nonostante sia stata confermata la Nato Mission, la presenza americana in Iraq è un fattore di bilanciamento regionale. Se le dinamiche politiche di Washington dovessero portare a scelte di ritiro completo, sarebbe problematico infatti per diversi equilibri, dal lasciare il Paese in mano a realtà articolate connesse ai Pasdaran fino alla potenziale apertura di un fronte iracheno indirettamente (solo per ragioni geografiche) contro Israele – che infatti è già impegnato da anni in operazioni in Iraq anni nel quadro della guerra regionale contro l’Iran. Le milizie sciite sarebbero infatti più libere di muoversi, magari anche tramite la Siria (dove hanno una presenza legata all’intervento a puntello del regime assadista).
È per questo che attaccano gli americani: non c’è solo l’odio diretto contro quello che viene individuato come il “Grande Satana”, secondo narrazione khomeinista, e alleato dello stato ebraico (disconosciuto dall’ideologia antisemita su cui si basano le predicazioni radicali sciite che fanno da base al proselitismo che sfama le milizie dell’Asse della Resistenza). Per i gruppi iracheni, attaccare e uccidere gli americani è utile per innescare tra l’opinione pubblica statunitense un sentimento di scontento con l’obiettivo di creare forme di pressione a Capitol Hill. D’altronde, per gli Usa lasciare l’Iraq sarebbe consequenzialità strategica, perché significherebbe avere più capacità di riorientare risorse altrove (ossia nel contenimento cinese). Il contesto elettorale è un momento giusto per certi push. Ma le conseguenze, soprattutto nel breve periodo, potrebbero essere pesanti.