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Come l’AI sta ridefinendo la creatività umana. La versione di Monti

L’IA mina o sviluppa la creatività? Genera immagini che sono arte a prescindere dalla partecipazione umana? C’è differenza tra un prodotto creativo e un’opera d’arte? Non possiamo pretendere sia il diritto a dover trovare risposte a queste domande. È un dibattito che deve necessariamente riguardare anche il mondo della cultura. La versione di Stefano Monti

La grande esplosione degli strumenti di IA rappresenta, per il genere umano, una grande sfida in molti campi della vita contemporanea. Più che il timore legato alla perdita di posizioni di lavoro, timore spesso cavalcato a scopi pubblicitari proprio dagli sviluppatori di sistemi di IA, ci sono sfide complesse che riguardano il rapporto tra l’essere umano e i nuovi sistemi tecnologici. Non è il ruolo dell’insegnante che scomparirà, ma il modo con cui insegnanti e studenti sfrutteranno le intelligenze artificiali.

In questo senso, proibire l’utilizzo di intelligenze artificiali è un’azione che, anche per chi la promuove, è certo non avrà impatti significativi. Una sfida interessante, in questo ambito, è quella che lega l’IA e il diritto d’autore o le licenze di copyright. Si tratta di una dimensione che sinora è stata trattata, giustamente, soprattutto in ambito e con approccio giuridico, cercando di identificare le strade tecnicamente più corrette per pervenire ad una formulazione di una linea generale sul tema. Il rapporto tra l’intelligenza artificiale e il diritto d’autore, tuttavia, non riguarda esclusivamente gli aspetti giuridici e i diritti economici da questi derivanti: concerne altresì dimensioni culturali e sociali che sarebbe sbagliato ignorare.

La dimensione “del diritto”, infatti, come tutte le dimensioni che riguardano la sfera democratica, risente anche degli interessi economici che sono collegati alla sfera della creatività: è ovvio che le etichette discografiche puntino a tutelare il proprio lavoro; è ovvio che le case editrici contrastino prodotti generati da un’intelligenza artificiale, sviluppati secondo un modello di self-publishing, e diffusi in modo del tutto autonomo. È una posizione corretta: si tratta di operatori privati che intendono tutelare i propri interessi. Al netto delle riflessioni artistiche e culturali in senso stretto. Ciò complica ancor di più l’iter di produzione di norme che possano rappresentare la collettività, atteso che la collettività è composta anche da gruppi di pressione che raccolgono il parere di un numero sufficientemente ampio di persone.

Al netto di ciò, però, e guardando alla riflessione giuridica esclusivamente sotto il profilo culturale, la prima distinzione che probabilmente sarebbe necessario adottare viene raramente accettata con piacerein ambito creativo: la differenza tra prodotto e opera. Ad oggi, una tale distinzione, non esiste né ai sensi di legge, né ai sensi di mercato. Esiste però nella realtà dei fatti: esistono prodotti musicali, che nascono come prodotti, vengono distribuiti come prodotti, vengono percepiti come prodotti. Esistono film, serie tv, videogame, e anche libri che sono prodotti culturali.

Si tratta di una dimensione che, nel rapporto tra IA e creatività, potrebbe essere davvero d’aiuto. Il punto è che è chiaramente difficile indicare dei criteri oggettivi in base ai quali poter distinguere, ai sensi di legge, di fisco, di mercato, quali possano essere i prodotti dalle opere, malgrado tale differenza sia in fondo, abbastanza percepibile. Né la distinzione tra “prodotto” e “opera” va interpretata con un approccio “critico”: prodotto e opera hanno la stessa dignità, e nessuna delle due categorie ha un valore maggiore dell’altro. Si tratta, in sintesi, di due differenti tipologie di produzione culturale e creativa.

Al di là di questo aspetto, ci sono poi riflessioni che richiedono un maggiore approfondimento. Nel dibattito giuridico, ad esempio, tra le dimensioni che vengono prese in considerazione, ci sono il livello di “interazione” tra l’essere umano e IA (Corte di Cassazione) o la presenza di opere coperte dal diritto d’autore nelle base-dati che “educano” l’IA. Quest’ultimo punto, che appare del tutto sensato sotto il profilo giuridico, è tuttavia del tutto assurdo quando lo si trasporta nella visione culturale.

Fermo restando che l’intelligenza artificiale non è, né sarà nel breve periodo, in alcun modo paragonabile ad una “persona fisica” (forse sarà più semplice il passaggio a persona giuridica, ma questo è un altro discorso), è pur vero che stabilire che un software “plagi” altre opere allorquando nella sua “educazione” siano state inserite opere in qualche modo protette da certificati giuridici di sorta (proprietà intellettuale, etc.), porrebbe un precedente alquanto bizzarro se trasportato in ambito umano. Sebbene in modo molto grossolano, non sarebbe molto distante dall’affermare che tutto ciò che viene creato con Photoshop è in realtà un plagio perché nella palette ci sono sfumature di colore che sono state realizzate da grandi artisti del passato.

Differente è invece la dimensione sul rapporto tra umano e software: se clicco su un tasto e il software fa tutto, posso anche utilizzare tale immagine o tale brano come voglio ma di certo non posso sostenere che quella sia l’opera di una mia creazione. In questo ritorna utile quella distinzione tra prodotto e opera prima suggerita: cliccare su un tasto che avvia un software, che è stato costruito a partire da un insieme di contenuti che sono di dominio collettivo (ai sensi culturali, si intende), non fa di me un artista, né fa del software un artista, né ne fa lo sviluppatore. Si tratta di un prodotto che può avere anche una grande gradevolezza estetica, al punto da poter divenire anche un’immagine diffusa, ma è un prodotto che “in se” è da attribuire automaticamente al pubblico dominio (stavolta in senso anche giuridico-economico).

Se invece ho a che fare con un software che traduce in immagine una serie di “comandi”, allora l’autore è colui che genera i comandi. Perché la calcolatrice non priva del diritto al voto. E l’utilizzo di Excel non riduce lo stipendio. Dal punto di vista culturale, e non propriamente di diritto, quindi, avvalersi dell’IA per realizzare opere creative, non dovrebbe generare ambiguità sul profilo autoriale.

Non si può di certo affermare che le attuali intelligenze artificiali “producano arte”. Non nel senso che attribuiamo a questa espressione. Al momento, le intelligenze artificiali possono e devono essere considerate a tutti gli effetti strumenti, come l’automobile o come l’autotune. Nel momento in cui ci sarà un software che, per una propria spontanea esigenza, avrà necessità di trasferire al genere umano un’emozione che gli sia propria, probabilmente quell’espressione avrà forme differenti da quelle che siamo soliti considerare arte.

Un dibattito, tuttavia, è più che necessario. Ma è un dibattito che deve necessariamente riguardare anche il mondo della cultura, che al momento si sta un po’ disinteressando di questi aspetti un po’ più tecnici. Gli esperti di diritto, tuttavia, possono al massimo “tradurre” in norme un orientamento diffuso. Non certo improvvisarsi di volta in volta esperti di tecnologia, di arte e curatela, di musica.

L’intelligenza artificiale mina la creatività o la sviluppa? Genera immagini che sono arte a prescindere dalla partecipazione umana? Vale più il percorso artistico, la necessità di espressione, la consapevolezza espressiva, o la tecnica con cui si realizza un’opera? C’è differenza tra un prodotto creativo e un’opera d’arte? Non possiamo pretendere sia il diritto a dover trovare risposte a queste domande.



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