La candidata democratica non farà in tempo a uscire da leader dalla Convention di Chicago che dovrà dare la sua linea sul complicatissimo dossier che ruota attorno alla guerra di Gaza e ai delicati equilibri in costruzione in Medio Oriente. Con lei il vice Tim Walz, che a quanto pare ne condivide visioni e toni
La vicepresidente degli Stati Uniti, Kamala Harris, è chiamata a un test politico non indifferente dalle evoluzioni del dossier mediorientale proprio nei giorni in cui la Convention di Chicago la incoronerà leader del Partito democratico e candidata per battere Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca. Quello che dirà Harris – e il suo vice designato, Tim Walz – avranno peso nemmeno troppo indiretto sui negoziati per il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza (e collegato rilascio di ostaggi), sulla potenziale rappresaglia iraniana, sulla destabilizzazione dell’Indo Mediterraneo da parte degli Houthi, sui disequilibri interni e sui rapporti americani con alleati partner, regionali e non.
Kamala e il Medio Oriente
Mentre l’America che va verso Usa2024 si trova davanti un mondo nuovo rispetto a quattro anni fa, il Medio Oriente torna argomento politico interno e internazionale, come lo è stato tante volte in questi ultimi decenni. In linea generale è difficile che durante la campagna elettorale Harris svii eccessivamente dalla traiettoria di Joe Biden, sia perché resta comunque vicepresidente di questa amministrazione (ancora incumbent), sia per visione personale (e dello staff). Tuttavia, potrebbe indurire i toni successivamente – soprattutto se nei prossimi mesi la guerra dovesse continuare e dovesse emergere la percezione che il governo di Benjamin Netanyahu non sta lavorando seriamente per cessare il fuoco.
Harris ha sempre sostenuto il diritto di Israele di difendersi, ma ha anche evidenziato le sofferenze palestinesi con un tono più empatico di Joe Biden. Per esempio ha invocato le leggi umanitarie internazionali per pressare Israele a fare di più nel “proteggere le vite dei civili a Gaza”. Per Harris, la questione è meno personalmente coinvolgente che per Biden (che, dopo anni di impegni nelle relazioni internazionali, si descrive come un “sionista”: “Non devi essere un ebreo per essere un sionista, e un sionista riguarda il fatto che Israele sia o meno un rifugio sicuro per gli ebrei a causa della loro storia di come sono stati perseguitati”, ha detto a luglio il presidente. La candidata democratica vede invece la situazione con una lente più distaccata, alla stregua di uno dei (tanti) dossier di politica estera che deve affrontare adesso e in futuro.
Sotto un’ottica di similitudine, è probabile che la linea di Harris sia allineata a quella presidenziale di Barak Obama. Dall’elettorato repubblicano sempre più di destra, da una parte di ebrei americani pro-Netanyahu e tra gli israeliani, la posizione di Obama era considerata ostile per i propri interessi. Da quello democratico, giovane e sempre più progressista, la linea che Harris potrebbe adottare nei prossimi mesi sarebbe molto ben percepita. In mezzo c’è una cerchia di indecisi che osserva a cui Harris, come Trump, intendono parlare anche usando questioni di politica estera come vettore; e sebbene di solito certi temi non siano attrattivi per le constituency statunitensi, questa nello specifico (che riguarda Israele, il mondo ebraico e nella semplificazione il rapporto con quello musulmano) ha un maggiore impatto. Tanto che a Chicago sono previste proteste in solidarietà con i palestinesi e contro il sostegno militare statunitense a Israele.
Harris ha marcato una linea con Netanyahu durante la sua recente visita a Washington nei giorni scorsi. Ha evitato di assistere al suo discorso al Congresso, ambiente più politicizzato, adducendo come ragione un impegno elettorale precedente in Pennsylvania (stato importante per Usa2024). Ma poi ha avuto un faccia a faccia con il primo ministro alla Casa Bianca, organizzato per altro in un momento differente dall’incontro dell’israeliano con Biden. Un modo per personalizzare già la gestione del dossier.
Il ruolo del vice
A darle sostegno ci sarà Tim Walz: il governatore del Minnesota, scelto da Harris come compagno di corsa, nel corso del suo decennio a Capitol Hill ha tenuto sul Medio Oriente posizioni abbastanza mainstream-democratiche. Ha dato sostegno a Israele e alle istanze dello stato ebraico con equilibrio sul supporto alla questione palestinese; ha sposato il ritiro dall’Iraq (posizione nata sotto Obama, poi spinta da Trump con l’America First e ora file complesso da gestire in mano a Biden); ha appoggiato l’accordo sul nucleare iraniano Jcpoa. Nota di colore: Walz è stato schierato in Italia dopo gli attacchi del 9/11 perché la sua unità dell’Army National Guard era tra quelle di supporto dell’operazione “Enduring Freedom” contro al Qaeda.
Intervistato ad aprile dall’affiliata locale della PBS, ha definito “intollerabile” sia il 10/7 – l’attacco mostruoso di Hamas che ha aperto la stagione di guerra – sia la situazione a Gaza, aggiungendo che serve mettere sul tavolo una soluzione “praticabile”. Parlando della cosiddetta “soluzione a Due Stati”, ha detto che gli Stati Uniti devono “continuare a spingere per questo e dobbiamo assicurarci che gli aiuti umanitari stiano arrivando”. Precedentemente, a marzo, in un’intervista sulla Minnesota Public Radio, aveva pubblicamente chiesto che si lavorasse con maggiore serietà per un cessate il fuoco.
Con le bandiere a mezz’asta alla Governor’s Residence dopo il massacro, denunciato come “una mancanza di umanità, terrorismo e barbarie”, pur ricordando che la maggior parte dei palestinesi non sono Hamas, Walz aveva parlato alla comunità ebraica del suo stato già il 10 ottobre, con un discorso alla sinagoga Beth El di South Loius Park (first-ring suburbano di Minneapolis). Parole che gli avevano portato il plauso dello Jewish Community Relations Council, che ne sottolineava il tono deciso a sostegno di Israele e contro l’antisemitismo. Posizioni poi rimarcate con le preoccupazioni per le proteste pro-palestinesi e anti-ebraiche nelle università (espresse anche nella sua funzione di governatore e tutore finale dell’ordine pubblico). Tuttavia, successivamente, ha riconosciuto le frustrazioni dei musulmani del Minnesota che votarono “uncommitted” alla primarie presidenziali locali in protesta con la linea di Biden, considerata eccessivamente pro-israeliana.
Cosa osservare
Tim Walz ha sempre espresso una forte opposizione agli interventi militari unilaterali degli Stati Uniti in Medio Oriente, privilegiando approcci diplomatici e multilaterali Linea condivisa da Harris, che trova traino sia nella visione storica idealista democratica che in quella realista moderna – dove quelle che Trump chiamava le “endless war” sono ormai detestate da tutto l’arco dell’elettorato. In particolare, si è opposto alla guerra in Iraq e agli attacchi militari in Siria, pur riconoscendo la necessità di azioni internazionali concertate contro l’uso di armi chimiche – ossia la linea che nel 2013 segnò la posizione internazionale dell’amministrazione Obama. Le posizioni dei due sul sostegno all’accordo sul nucleare con l’Iran del 2015, ritenuto il miglior strumento per limitare i piani di Teheran, sono sempre sostenute da parole sui i diritti e sulle attività malevole e aggressive dei Pasdaran nella regione.
Da governatore non certo molto conosciuto – dunque esterno alle dinamiche della Casa Bianca e dell’amministrazione – Walz è stato più libero di esprimersi in questi dieci mesi di guerra. Harris si è trovata e si trova invece su una posizione particolare: ha dovuto seguire una linea istituzionale (e lo ha fatto senza sussulti, né in positivo né in negativo), inoltre non è solo la candidata democratica, ma anche la vice di un presidente talmente “lame duck” da aver dovuto rinunciare alla corsa per il suo secondo mandato. È dunque adesso, più che mai nella sua carriera, percepita come parte delle discussioni. Da lei si attendono risposte – anche indirette, ma comunque in grado di influenzare il dossier – Israele e i Paesi arabi alleati, ma anche l’Iran e le milizie connesse, così come gli alleati internazionali come gli europei (che vedono la guerra di Gaza dentro i propri confini geostrategici) e i rivali come Russia e Cina.