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L’attacco di Solingen spiega come Is capitalizza dalla crisi di Gaza

L’Is utilizza il conflitto per incitare attacchi terroristici contro obiettivi ebraici e occidentali, cercando di radicalizzare e reclutare individui arrabbiati per la situazione in Palestina. Dichiarazioni di Amaq News dopo l’attacco di Solingen

Hezbollah sostiene che se si arrivasse a un cessate il fuoco i suoi attacchi contro Israele terminerebbero e dunque non si vedrebbero gli scontri come quello di domenica mattina presto (con cui gli attori in campo hanno lavorato per la deterrenza). Tuttavia in questo le intelligence europee fanno sapere di condividere con quelle di Usa, Egitto e Qatar la necessità di pressare per raggiungere una tregua a Gaza non solo per questa condizione circostante. Stanno anche pensando infatti al rischio che la continuazione della guerra produca effetti di innesco per un ritorno del terrorismo nel Vecchio Continente.

S’è più volte ripetuto che lo Stato islamico avrebbe sfruttato la guerra israeliana a Gaza per spingere il proselitismo, e i recenti fatti avvenuti in Europa ne sono conferma. Non che l’Is e Hamas abbiano interessi e attività in comune — quella era una semplificazione superficiale spinta dal governo Netanyahu nei primi giorni dopo il drammatico 7 ottobre, quando Israele doveva incassare sostegno sul diritto di difesa, poi diventato rapidamente diritto di attacco. Ma mentre le istanze del gruppo fondato da Abu Bakr al Baghdadi crescono da tempo nel West Bank, gli attentati di Soligen, in Germania, e nella sinagoga francese di La Grande-Motte indicano che il ritorno degli attacchi in Europa si può legare anche alla guerra nella Striscia.

Lo dice d’altronde Amaq News, che chi ha in mente la stagione del terrore tra 2014 e 2016 ricorderà come l’agenzia stampa che propaganda le azioni dei baghdadisti, la quale spiega che l’attacco in Germania — condotto da un “soldato” dello Stato islamico — è inquadrato tra quelli contro i Cristiani ed è una vendetta per il trattamento dei musulmani “in Palestina”,  e implicitamente contro l’appoggio tedesco a Israele.

Ciò che non è ancora chiaro per ora è il network alle spalle delle azioni, sebbene sia l’aspetto determinante per comprenderne le evoluzioni. Non si sa infatti se ci sia una regia logistica esterna, ossia se chi ha agito lo abbia fatto come elemento di una cellula direttamente collegata alla catena di comando centrale (forse attualmente concentrata nel Khorasan, oppure, oppure ancora nascosta tra Siria e Iraq). O invece abbia agito personalmente ispirato, e dunque si sia trattato di un episodio di auto-indottrinamento che ha portato al gesto un cosiddetto “lupo solitario”, di solito con storia personale complessa.

Probabile la formula ibrida: non una cellula vera e propria, ma contatti tra l’attentatore e gli ispiratori potrebbero essere stati diretti, fornendo magari anche istruzioni su come agire e materiale propagandistico per il (non-solo-auto) convincimento — e l’uso dei coltelli come a Solingen testimonia che l’improvvisazione sia parte anche della scelta dell’arma, facile da reperire senza attirare attenzione e in grado di sfogare nel gesto rancori cruenti. Niente di nuovo, sono avvenuti così molti degli attentati del periodo di sangue che si abbinava alle conquiste territoriali dell’Is in Siraq.

E l’Is è un’organizzazione opportunistica: non è interessata tanto al destino palestinese, anzi, persino un eventuale soluzione a due Stati, che segnerebbe il successo delle istanze storiche dei palestinesi, sarebbe raccontata come un successo impuro, frutto di un accordo con il nemico. E però, lo Stato Islamico sta sfruttando il conflitto tra Israele e Hamas per intensificare la propria campagna propagandistica a livello globale.

Lo spiegano in un’analisi Colin Clarke e Lucas Webber pubblicata già a novembre scorso su Irregular Warfare Initiative. Detto in estrema sintesi: l’Is utilizza il conflitto per incitare attacchi terroristici contro obiettivi ebraici e occidentali, cercando di radicalizzare e reclutare individui arrabbiati per la situazione in Palestina. Nonostante la loro condanna verso Hamas, analizzavano, i baghdadisti stanno posizionandosi come difensori della causa palestinese, promuovendo la violenza soprattutto attraverso le loro ramificazioni internazionali, come in Afghanistan-Pakistan (Is-K, o Islamic Stante in the Khorasan). Questa strategia opportunistica non si limita solo al Medio Oriente, ma rappresenta una minaccia anche per i Paesi occidentali, dove l’Is ha già ispirato diversi attacchi e complotti, spiegavano i due autori in forma quasi profetica. L’articolo evidenzia come questa propaganda rappresenti un rischio serio per la sicurezza globale, poiché l’organizzazione cerca di catalizzare il malcontento generato dal conflitto per rafforzare la propria presenza e il proprio potere.

A distanza di dieci mesi, la situazione richiede ancora maggiore una vigilanza costante, poiché il gruppo radicale potrebbe utilizzare ogni pretesto per fomentare ulteriore violenza e destabilizzare ulteriormente le aree di conflitto, ma anche per portare il terrore in altre parti del mondo.

È anche alla luce di tale contesto montante che il raggiungimento di un cessate il fuoco — con i dialoghi negoziali condotti dalle intelligence che sono ripartiti al Cairo — diventa una necessità ancora più stringente. Se prosegue il conflitto, aumenta l’acidità dello scontro, aumentano le vittime e aumenta la diffusione politica internazionale, regionale e culturale dei suoi effetti. Un minorenne francese è stato fermato recentemente con 1700 video baghdadisti (tra sermoni, spiegoni jihadisti e riprese di azioni); altri coetanei sono tra coloro individuati come pronti all’azione. Pronti a produrre quegli effetti che in questi giorni sono ricaduti in uno dei centri produttivi della Rhur e nel tempio ebraico vicino a Montepellier, al di là delle vicende dirette che interessano gli attentatori, mentre le intelligence europee fanno sapere confidenzialmente che diversi altri attacchi sono stati sventati negli ultimi mesi.


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