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Perché il papa incontra i parenti di chi perì nell’esplosione del porto di Beirut. La riflessione di Cristiano

L’iniziativa vaticana non punta il dito contro qualcuno, ma difende e tutela quella natura cosmopolita, plurale, che il porto ha simboleggiato per due secoli. Quell’esplosione ha reso inagibile gran parte del principale, più antico insediamento cristiano, ortodosso, Jammayzeh, epicentro della storia culturale cittadina. La riflessione di Riccardo Cristiano

Il 26 agosto papa Francesco riceverà in Vaticano una delegazione dei familiari delle vittime dell’esplosione del porto di Beirut. Le vittime di quell’evento, che ha ricordato un fungo atomico, sono più di 230. Da subito ostacolata dalle autorità libanesi legate o espressione di Hezbollah, unico indiziato, l’inchiesta è praticamente scomparsa, i magistrati ricusati un infinità di volte da ministri e dallo stesso ex primo ministro. Tutto insabbiato. La questione riaffiora, in Libano e sulla stampa mondiale, in occasione dell’anniversario di quel 4 agosto 2020. Ora il Vaticano porta fuori dalle secche di una memoria sporadica un evento che non ha distrutto solo la principale risorsa della città, ma evidentemente tentato un raro urbicidio.

Beirut fu distrutta dalla guerra civile in lunghi anni di combattimento, poi ricostruita in un’impresa quasi unica dal premier miliardario, Rafiq Hariri. Urbanisticamente discussa, socialmente è stata un successo epocale, capace di restituire a tutte le diverse comunità che vivono in Libano il loro spazio comune, il centro di Beirut, l’ultimo scalo del Levante a non ammainare la bandiera della complessità cosmopolita. Proprio contro questa sua essenza si è diretto questo tentato e in buona parte riuscito caso di urbicidio. Quel giorno era attesa, dopo quindici anni di inchieste e rinvii, la sentenza per l’assassinio di Rafiq Hariri: fu rinviata ma comunque emessa pochi giorni dopo, riconoscendo colpevoli alcuni miliziani di Hezbollah.

La delegazione dei parenti delle vittime incontrerà anche il segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, prima della messa privata che sarà celebrata nella cappella Paolina e presieduta dallo stesso papa Francesco. Accompagnata dal nunzio apostolico, comprende figure impegnate da allora nella rappresentazione delle richieste dei familiari delle vittime: Nazih el-Adem, padre Krystel el-Adam, William Noun, il fratello del pompiere morto nel tentativo di contenere le fiamme, Joe Noun, l’avvocata Cecile Roukoz.

Ovviamente l’evento non ha soltanto il valore di vicinanza spirituale e di conforto che il Vaticano gli attribuirà. Il 4 agosto William Noun è stato sommerso di insulti e minacce da parte di miliziani estremisti filo Hezbollah sui social libanesi, perché lui, nel suo discorso commemorativo del 4 agosto, si è permesso di ricordare anche le vittime di un’altra pagina nera della storia libanese, quando Hezbollah occupò con i suoi miliziani i quartieri di altre comunità religiose, soprattutto sunniti e drusi, quando la tensione politica per contrasti interni libanesi era altissima: quelle milizie arrivarono ad abbozzare  un assedio delle residenza di personalità politiche, come Walid Joumblatt, il famoso leader druso. Ma devastarono molte sedi della catena informativa degli Hariri, al Mustaqbal.

Dunque è evidente che l’iniziativa vaticana non punta il dito contro qualcuno, ma difende e tutela quella natura cosmopolita, plurale, che il porto ha simboleggiato per due secoli. Quell’esplosione ha reso inagibile gran parte del principale, più antico insediamento cristiano, ortodosso, Jammayzeh, epicentro della storia culturale cittadina.

Che Hezbollah mal sopporti la cultura cosmopolita di Beirut è evidente, e vedrà con preoccupazione che dal 4 agosto la maggioranza politica dei partiti cristiani non è più favorevole all’intesa che c’è stata negli anni passati con Hezbollah. Forse sarà solo una coincidenza, ma colpisce che proprio oggi il giornale libanese più vicino a Hezbollah, al Akbar, pubblichi un lungo articolo che riduce la consistenza numerica dei cristiani in Libano al 15%. Che la crisi economica in cui la cura governativa pro Hezbollah ha fatto sprofondare il Libano – anche per colpa del clamoroso malgoverno precedente – possa aver indotto alla fuga i cristiani che potevano farlo appare plausibile. Non che siano scesi al 15%. Ma la sete di egemonia di Hezbollah sulle istituzioni libanesi è evidente da tempo, e in uno dei suoi recenti interventi, il capo di Hezbollah, Hasan Nasrallah, ha detto senza mezzi termini che il sistema deve tener conto che “noi siamo di più”. Una frase dal significato evidente, che si è preferito ignorare, ma che i libanesi hanno ben capito nel suo significato. Il Libano infatti è senza un presidente perché Hezbollah non ha una maggioranza parlamentare per eleggerlo, ma blocca i lavori parlamentari per impedire l’elezione di un candidato sgradito a Nasrallah.



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