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Il peso dell’economia nella corsa alla Casa Bianca. Scrive Polillo

2024 anno di votazioni. Occhi puntati su quanto è stato fatto e su quanto rimane ancora da fare. Soprattutto considerati i numeri sullo stato di salute dell’economia, con i suoi riflessi di carattere sociale e le conseguenti ricadute di carattere politico. L’analisi di Gianfranco Polillo

In occasione delle votazioni presidenziali americane, la congiuntura rappresenta il cinquantunesimo Stato della Confederazione. In quella parte del territorio, ovviamente, non vi sono né sezioni elettorali né urne da riempire. Non vi sono nemmeno elettori, ma solo numeri: quelli che riguardano lo stato di salute dell’economia, con i suoi riflessi di carattere sociale. E quindi con le conseguenti ricadute di carattere politico.

Nulla di meccanico, per carità. Ma in generale se il “ciclo elettorale” è positivo, la riconferma dell’amministrazione ancora in carica è quasi certa. Il contrario nel caso opposto. Da qui la grande attenzione nei confronti dei guru dell’economia. Di coloro, cioè, che avendo in mano le chiavi di quella scienza triste, sono in grado, con i loro interventi, di influenzare la pubblica opinione.

Il 2024, anno di votazioni, non farà eccezione. Quindi occhi puntati su quanto è stato fatto, e su quanto rimane ancora da fare. Con i Repubblicani pronti a denunciare le malefatte presunte o reali dei Democratici. E questi ultimi decisi, invece, specie dopo il ritiro di Joe Biden, a valorizzare al meglio i quattro anni vissuti sugli scranni più alti della politica americana. E nel mezzo della contesa i rabdomanti della notizia. Ricercatori e comunicatori di entrambe le parti alla perenne ricerca di dati, gossip e retroscena per portare acqua a favore dei propri referenti politici.

Le ultime notizie parlano della grande rimonta di Kamala Harris. O meglio delle improvvise difficoltà di Donald Trump. Fino a ieri ritenuto l’unico vero candidato alla Presidenza, dopo le scialbe prestazioni di Joe Biden. Un Donald Trump, tuttavia, che non era stato premiato dai sondaggi, come di solito avviene, nemmeno all’indomani della sua nomination, in quel di Milwaukee. E che ora, di fronte alla freschezza della nuova sua avversaria, rischia di apparire come un brontosauro. Il più vecchio presidente americano della storia di sempre.

Kamala Harris, dalla sua, ha diversi atout che, come già si è visto nelle sue prime dichiarazioni contro Trump, giocherà con grande determinazione. I primi sondaggi, per quel che possono valere, la danno in crescita e favorita. Non è molto, ma almeno segnano un cambiamento di clima. Preoccupati, i Repubblicani cercheranno di caricare a testa bassa, accentuando le critiche sui punti più controversi dell’esperienza di Biden. Coinvolgendo nel dileggio la stessa Kamala, che ne era stata la vice.

Tra i punti più sentiti dall’elettorato, quelli della criminalità, dell’immigrazione e più in generale del malessere sociale. Preoccupano i mass shooting, vale a dire le sparatorie nei luoghi affollati, con la loro coda di sangue. Nel 2023 i morti sono stati oltre 40mila. È il far west del libero commercio delle armi da guerra, come mostra anche l’ultimo attentato contro Donald Trump. E poco importa se, ad alimentarlo, i Repubblicani sono stati sempre in prima linea.

Avendo la coda di paglia, insisteranno di più sul traffico della droga, sempre più legata al commercio internazionale, quand’anche illegale. Cina e Messico. La prima che produce il fentanyl, un oppiaceo che ha invaso il mercato. Usato in medicina nella terapia del dolore, specie per i malati terminali, ma fuori del controllo medico è una droga cento volte più potente dell’eroina, capace di determinare una dipendenza assoluta che prima trasforma l’incauto tossico dipendente in uno zombi e poco dopo lo accompagna alla morte.

Nel 2023 i morti accertati per il consumo di droghe erano stati oltre 75mila (in larga misura consumatori di fentanyl), contro i 56mila del 2020. Di fronte a questa strage, Joe Biden aveva cercato di convincere Xi Jinping ad intervenire, ottenendo un nulla di fatto. La Cina produce la sostanza, ne reprime il consumo interno. Ma è tollerante verso le esportazioni, soprattutto illegali. Solo una pratica commerciale per quanto disdicevole? I vecchi sospetti al tempo del Covid, tornato prepotenti, alla luce dello Xi Jinping pensiero.

L’altro grande buco è rappresentato dal confine con il Messico. Attraverso quei varchi passa di tutto. Contrabbando di ogni cosa abbia un prezzo e valore, immigrati illegali, ogni genere di droga, compreso il fentanyl e le altre sostanze illegali. Risolvere il problema è quasi impossibile, come dimostra il susseguirsi dei tentativi. Tutti finiti in un buco nell’acqua. Impressionanti i dati denunciati: 2,4 milioni di ingressi nel 2023. Il dato più alto degli ultimi 20 anni. Oltre 6 milioni le richieste di immigrazioni con una crescita che, negli ultimi cinque anni, è stata superiore al 150%.

Queste, quindi, le principali frecce all’arco dei Repubblicani. Che, invece, sul terreno dell’economia, hanno poco da argomentare. Denunciano l’inflazione che, durante la presidenza di Biden, ha falcidiato i salari, toccando, in alcuni momenti, la punta del 10%. Ma oggi la situazione è più distesa. Una leggera fiammata ancora nei primi mesi dell’anno. Ma già dal prossimo, si spera di tornare alla soglia del 2%. E poi mal comune mezzo gaudio. Nei confronti internazionali, gli Usa non sono stati i soli a dover combattere con l’aumento dei prezzi.

Rispetto al resto del mondo, soprattutto agli altri Paesi occidentali, hanno avuto inoltre il vantaggio di una più forte crescita dei livelli di occupazione. Sia in termini di tassi di attività, che di minore disoccupazione. Quest’ultimo, oggi, al di sotto dei livelli frizionali. L’effetto di questa asimmetria è stato la riduzione del salario individuale in termini reali ma l’aumento di quello familiare grazie alla maggiore occupazione degli addetti. In termini politici se non proprio un pari e patta, poco ci manca.

Fuori discussione, invece, i risultati macroeconomici, con una crescita del Pil pari al 2,5% per il secondo anno consecutivo. Il tutto mentre il resto del mondo non sembra capace di stare al passo. L’Ue, bene che vada, avrà un tasso di crescita più che dimezzato. Il Giappone, stando almeno alle previsioni più recenti, avrà uno sviluppo da prefisso telefonico. La Cina, a sua volta, difficilmente potrà riemergere dalla fossa in cui è precipitata.

Va solo aggiunto che la prospettiva 2025, secondo alcuni think tank specializzati, lascia ben sperare. Si calcola che l’ulteriore sviluppo dell’IA darà una spinta ulteriore alla crescita del Pil di circa un punto. In questo campo, il primato americano è senza rivali grazie ad una politica lungimirante che le ha consentito di prendere le distanze dalle fregole ambientaliste e puntare, invece, sulla tecnologia di base dello sviluppo futuro.

Nell’ultimo decennio – 2013/2023 – gli investimenti americani in questo campo sono stati pari a 335 miliardi di dollari. Quelli della Cina, secondo Paese al mondo, a meno di un terzo: poco più di 100 miliardi (dati della Stanford University). Una differenza che, negli ultimi anni, è progressivamente cresciuta. In gioco è la leadership nel campo della produzione di quelle “macchine intelligenti” che nasceranno dalla simbiosi con la robotica. E saranno in grado, rivitalizzando la “old economy”, di trasformare radicalmente l’habitat industriale di qualsiasi Paese.

Unico handicap è l’ulteriore maggior consumo di energia, al quale si dovrà far fronte contenendo i relativi costi di produzione. Al quale Biden ha cercato di provvedere lanciando l’Ira (Inflation reduction act) che tanto spaventa i concorrenti. Soprattutto gli europei, per i suoi contenuti neo-protezionistici. Un’ampia serie di misure volte principalmente a incentivare gli investimenti sulle energie rinnovabili, all’insegna del “Buy American” e il proposito esplicito di spingere le aziende più competitive a localizzarsi sul territorio americano.

Per contrastare questa strategia, i Repubblicani insistono sul pericolo dei deficit eccessivi della bilancia commerciale. Troppe le importazioni, soprattutto dalla Cina. Ma in parte anche dell’Europa. Agitare questo spauracchio in un Paese che vive da diverso tempo in una situazione di piena occupazione è solo un controsenso. Quelle importazioni, concentrate soprattutto sui beni di largo consumo e nei settori non strategici, fanno risparmiare all’America quelle risorse finanziarie che, come abbiamo visto, sono poi investite nei settori di punta. Che le garantiranno il controllo strategico degli anni a venire.

Difficile valutare se ragionamenti di questo tipo faranno presa sull’elettorato americano. Ma se così non fosse l’ipotesi di decadenza dell’Occidente, tanto cara al premier cinese, troverebbe una sua clamorosa conferma.

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