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Spagna via dal Libano? Un pessimo segnale, ma l’Italia c’è. Parla Craxi

Intervista alla presidente della Commissione Esteri/Difesa del Senato: “L’Iran è la principale fonte di destabilizzazione dell’area. Nei funerali di Haniyeh a Teheran abbiamo ascoltato minacce terrificanti, verso Israele ma anche verso l’Occidente tutto, su cui certi pacifisti nostrani da salotto e da corteo, una certa sinistra, dovrebbe riflettere attentamente”

Non sarebbe un bel messaggio se la Spagna, dopo aver incassato la nomina del responsabile Nato del fronte Sud, si ritirasse dal Libano. Lo dice a Formiche.net la senatrice Stefania Craxi, presidente della Commissione Esteri/Difesa del Senato, che analizza la fortissima tensione nella regione che interessa anche i militari italiani impegnati nella missione Unifil. “Le incognite sono tante, nell’area si aggirano alcuni incendiari, interni e esterni alla regione, il radicalismo dilaga e si intersecano una molteplicità di dinamiche indirette che non è sempre possibile controllare”, spiega.

La Spagna già pensa a ritirarsi dal Libano: che farà l’Italia che vanta una lunga e folta presenza di militari impegnati nella missione Unifil?

La situazione sul fronte libanese è incandescente. I razzi che piovono su Israele non sono una novità di questi giorni, è un’offensiva che, specie dopo il 7 ottobre, continua con intensità crescente. Gli scontri a fuoco sono quotidiani e solo in questi ultimi mesi si contano oltre 500 morti, civili compresi, tutti nella zona prossima alla Blue Line. Ma proprio per questa ragione la comunità internazionale, gli attori più responsabili, non debbono ritrarsi, non solo perché Unifil è un simbolo, ma è funzionale a impedire uno scontro diretto tra le parti e può avere un ruolo importante nella stabilizzazione dell’area. Spero che a Madrid lo capiscano, anche perché un ritiro, in questo scenario, risponderebbe più a ragioni di propaganda che non di sicurezza. Ma qualora decidesse di intraprendere questa strada, l’Italia, con le necessarie garanzie per i nostri militari, deve proseguire nel suo impegno, anche perché il nostro ruolo, com’è unitamente riconosciuto, è fondamentale. E poi una scelta di questo tipo sarebbe un brutto segnale…

In che senso?

In molti sensi. La Spagna ha ottenuto, con una scelta a dir poco inusuale di un segretario generale uscente, un suo uomo come inviato della Nato per il fianco Sud. E dopo poche settimane, che fa? Abbandona una missione Onu nella regione, di cui peraltro ha il comando? Conviene con me che non sarebbe un bel messaggio, un bel modo per occuparsi del Mediterraneo allargato…

Chi dialogherà con la Repubblica islamica per impedire il peggio?

I canali di dialogo sono aperti a più livelli e a diverse latitudini, Italia compresa. Il ministro Tajani in questi mesi, pur nella chiarezza delle posizioni, ha mantenuto un dialogo franco e continuo con Teheran. E, nel mio piccolo, ho fatto lo stesso come presidente di Commissione, usando il linguaggio della verità, sapendo che l’Iran è la principale fonte di destabilizzazione dell’area. I risultati non sono mancati: ad esempio, il ministro ha chiesto e ottenuto dal suo omologo iraniano che gli Houthi non attaccassero mercantili italiani di transito a Suez. Ma non solo. Ora dobbiamo lavorare per costringere l’Iran a imboccare la strada della stabilità in Medio Oriente, disinnescando questa bomba di odio e di terrore che da lì si propaga in tutta la regione. Nei funerali di Haniyeh a Teheran abbiamo ascoltato minacce terrificanti, verso Israele ma anche verso l’Occidente tutto, su cui certi pacifisti nostrani da salotto e da corteo, una certa sinistra, dovrebbe riflettere attentamente.

Chi garantirà sulle mosse di Israele?

Sarebbe anche utile chiedersi chi garantirà per le mosse degli altri attori. Israele, è comunque una democrazia e risponde in primis al suo popolo, a cui deve garantire di poter esistere. E poi Washington è convinta che l’Iran attaccherà Israele nei prossimi giorni per rappresaglia contro l’assassinio del capo politico di Hamas. Ecco, se dovesse succedere, confido che lo schema sia quello “controllato” dello scorso aprile, con attacchi e risposte mirate, e non l’inizio di una diversa e più larga conflittualità. Ma le incognite sono tante, nell’area si aggirano alcuni “incendiari”, interni e esterni alla regione, il radicalismo dilaga e si intersecano una molteplicità di dinamiche indirette che non è sempre possibile controllare.

L’allargamento a macchia d’olio del conflitto è ormai un dato irreversibile?

No, tutt’altro. Anche perché c’è consapevolezza da parte di tutti gli attori globali, ivi compresi le parti interessate, che sarebbe un evento catastrofico con esiti e conseguenze imprevedibili. Nessuno, in questo momento, vuole una regionalizzazione del conflitto, in un’area che tuttavia resterà instabile e precaria per lungo tempo. Quello che temo, però, è l’anarchico a Sarajevo.



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