Fermezza diplomatica. Il consigliere per la Sicurezza nazionale statunitense a Pechino apre ai futuri, conclusivi step del rapporto Biden-Cina, ma non dimentica di mantenere una linea ferma su molti dossier sul tavolo. Washington gestisce la competizione pensando anche a Usa2024, Xi lo sa
Joe Biden e Xi Jinping si parleranno al telefono nelle prossime settimane: tra tutti i vari colloqui tenuti in questi quattro giorni di visita a Pechino dal consigliere per la Sicurezza nazionale statunitense, la telefonata è il risultato più concreto. La conversazione tra il presidente statunitense uscente e il leader cinese rinnoverà quello che la Repubblica popolare chiama “visione di San Francisco”, ossia l’insieme di intenti e guardrails con cui i due hanno segnato il perimetro della competizione durante il faccia a faccia californiano del novembre scorso.
La conversazione telefonica decisa durante l’attuale visita cinese di Jake Sullivan avverrà probabilmente prima della UNGA — la United Nations General Assembly, che ci sarà al Palazzo di Vetro tra il 22 e il 23 settembre. L’assemblea è un momento importante per entrambi, perché nel massimo consesso multilaterale i cinesi e gli americani cercheranno di difendere la bontà del modello di governance internazionale che portano, con il Partito/Stato che spinge a una revisione delle regole (sinocentrica) e con la Casa Bianca di Biden che si è fatta simbolo delle Democrazie globali, basate sullo stato di diritto che ha costruito norme, approcci e comportamenti con cui il mondo ha evitato una terza guerra mondiale. Insieme di regole che la Cina contesta perché centrate sull’Occidente, capitalizzando consensi da una serie di Paesi che ne condivide tale percezione.
Ma il fatto che Sullivan abbia potuto partecipare a oltre dodici ore di colloqui in questi giorni è dovuto all’esistenza di regole che incoraggiano la massima comunicazione, anche tra rivali come Cina e Stati Uniti, al fine di gestire in modo costruttivo la loro competizione.
Piuttosto, certi incontri sono mancati troppo a lungo: era dai tempi di Susan Rice, seconda amministrazione Obama, che un consigliere per la Sicurezza americana non si recava a Pechino. Per questo la stretta di mano di Sullivan con Xi nella Grande Sala del Popolo assume particolare importanza. Anche perché otto anni fa il confronto e la competizione tra Cina e Usa aveva toni meno acidi — forse anche perché era ancora gestito in modo meno pubblico.
Per Sullivan il lavoro è complesso: nei tre mesi che vengono si deciderà il prossimo presidente statunitense, e la Cina è forse l’unico degli argomenti che accomuna i due fronti. Repubblicani e Democratici, nonostante la totale polarizzazione pensano in modo comune che gli Stati Uniti debbano continuare a tenere un approccio duro con Pechino. Ovviamente c’è differenza che sia Kamala Harris o Donald Trump il prossimo presidente: la prima avrà probabilmente una linea più classica, simile a quella dell’attuale amministrazione; l’altro è imprevedibile, tendenzialmente falco ma in grado di diventare colomba violando principi, posture e protocolli strategici nel nome della “art of the deal”. Pechino è preoccupata comunque (forse più del secondo).
Gestire i prossimi mesi
Intanto però c’è Biden: nei prossimi mesi, il presidente ultra-lame-duck, ritiratosi dalla competizione elettorale per manifesta impossibilità di correre verso il successo di Usa2024, avrà la possibilità di parlare con Xi, di incontrarlo al G20 in Brasile (ci sarà un bilaterale?) e forse di viaggiare in Cina prima di passare il testimone. Sullivan e l’amministrazione dovranno gestire questa fase evitando di mostrare che gli Usa sono in folle, attendendo un nuovo pilota per rimettersi in marcia, ma anche tenendo il leader distante da potenziali situazioni imbarazzanti (che poi potrebbero segnarne l’eredità politica, quella di Harris, nonché avere effetti sulla relazione futura).
Per gestire tale contesto serve controllo e sicurezza, fermezza e adattabilità, pazienza e discrezione: in una parola diplomazia. E Sullivan su questo binario si è mosso, ribadendo che nessuno vuole un conflitto e che entrambi sono disponibili alla comunicazione. Xi ha risposto seguendo la linea, invitando a trovare forme di “incontro a metà strada”, chiedendo agli Usa di guadare alla Cina e al suo sviluppo in modo “positivo e razionale” (l’idea che l’America voglia impedire lo sviluppo cinese è insita nel pensiero di Xi, perché in effetti esso è visto “più come una sfida che come un’opportunità”).
Ma la cornice di cordialità dell’incontro con il leader, parte anche dell’approccio protocollare cinese, non nasconde totalmente momenti di maggiore tensione che Sullivan ha avuto nelle discussioni con Wang Yi, il ministro degli Esteri capo della diplomazia del Partito, e con Zhang Youxia, vicepresidente della Commissione Militare Centrale cinese (è stato il primo incontro tra un funzionario statunitense e una figura militare cinese in quel ruolo dal 2018). Wang ha per esempio espresso insoddisfazione per le politiche statunitensi che Pechino vede come destabilizzanti, in particolare le restrizioni tecnologiche e il supporto a Taiwan. Zhang ha sottolineato la necessità che gli Stati Uniti riducano le attività militari nell’Indo Pacifico, che Pechino definisce “provocatorie”.
D’altronde i background forniti dagli americani spiegano che le conversazioni sono state “substantive”: e dunque, data per vera l’interpretazione, è impossibile che esse lo siano state senza momenti di confronto più aspro. Per dire, durante la conferenza stampa organizzata dall’ambasciata americana a valle del viaggio, a Sullivan è stata posta la seguente domanda: “Sappiamo che le cose sono molto tese in questo momento nel Mar Cinese Meridionale, soprattutto con le Filippine. Esiste una roadmap ragionevole per il futuro?” Risposta: “Innanzitutto, crediamo che la parola d’ordine debba essere ‘de-escalation’, e sosteniamo a tal fine discussioni dirette tra le Filippine e la Repubblica popolare cinese (anche PRC, ndr). Abbiamo però anche chiarito molto bene che il nostro trattato di difesa reciproca si applica alle navi pubbliche, incluse le navi della guardia costiera, che operano nel Mar Cinese Meridionale e in altre acque. Si applica anche agli aerei, per inciso. Quindi la PRC comprende bene l’impegno di lunga data che gli Stati Uniti hanno ai sensi del loro trattato di difesa reciproca con le Filippine, e le Filippine comprendono bene che abbiamo un impegno ferreo a sostenerle nell’esercizio legale dei loro diritti, dei loro diritti marittimi”.
Parole che confermano come le “azioni destabilizzanti” cinesi contro le Filippine siano un dossier prioritario per gli Usa, al momento flashpoint numero uno tra le due potenze, che Washington intende trattare con fermezza diplomatica.