L’uscita di scena di Biden riapre la corsa elettorale. Con un Trump in difficoltà e una Harris in ascesa, l’esito del voto resta incerto, alimentando timori di tensioni post-elettorali simili a quelle del 2021. L’analisi dell’ambasciatore Giovanni Castellaneta
A tre mesi dalle elezioni presidenziali, a che punto è la campagna elettorale negli Stati Uniti? L’unica certezza – se così si può dire – è che il risultato resterà incerto fino alla fine: l’equilibrio tra i due candidati – Donald Trump e Kamala Harris – resterà tale fino all’esito del voto. Infatti, se fino a poche settimane fa la vittoria del leader repubblicano sembrava ormai in tasca, il ritiro di Joe Biden ha contribuito a cambiare le carte in tavola restituendo slancio ai democratici, costringendo l’ex presidente a modificare strategia per puntare non solo sulle critiche personali al presidente in carica (vulnerabile per il suo stato di salute non smagliante) ma anche sul contrasto ai temi politici ed economici messi in campo dai rivali democratici.
Se “The Donald” avesse previsto il ritiro di “Sleepy Joe” (che a parole invocava ma in realtà scongiurava preferendo un rivale più anziano e apparentemente più debole), probabilmente non avrebbe scelto come suo vice J.D. Vance il quale, essendo sostanzialmente una sua copia più giovane in quanto a contenuti e messaggi veicolati, non lo aiuta granché ad allargare la propria base elettorale. Infatti, nei prossimi mesi la priorità di Trump non dovrà essere consolidare il proprio zoccolo duro di elettori che voterebbero per lui in ogni caso, bensì allargare i consensi cercando di coinvolgere anche quei moderati indecisi che per il momento preferiscono l’astensione. Una figura divisiva come Vance non serve a questo scopo, mentre il ticket che vede Harris e Tim Walz è stato invece studiato proprio per essere complementare. Il vice designato dalla candidata dem è infatti perfetto per rivolgersi a quella fascia di classe media che, a differenza degli hillbilly di Vance, non sono dei bianchi poveri ma sono stati impoveriti dalla crisi della globalizzazione e vogliono dunque tornare a essere protagonisti nella società statunitense.
Probabilmente da parte di Harris sarebbe stato più coraggioso scegliere Josh Shapiro, governatore di uno Stato in bilico e fortemente penalizzato dalla crisi economica coma la Pennsylvania. Ma sicuramente la nomination di Walz ha contribuito a chiudere il divario nei sondaggi con il ticket Trump-Vance. E ha anche dimostrato come il Partito democratico sia ancora molto più vivo e articolato dei repubblicani, ormai ridotti a un partito personale totalmente nelle mani del suo leader. Una nemesi curiosa, ma che deve indurre a riflettere, per quello che una volta era il Grand Old Party e che ha espresso grandi personalità politiche. In ogni caso, il risultato di questa situazione è quello di un sostanziale equilibrio che andrà poi messo alla prova del complesso sistema elettorale statunitense, diviso per Stati a loro volta ponderati attraverso il numero di grandi elettori. E di cui bisognerà verificare la tenuta democratica, qualora una sconfitta di Trump non dovesse essere accettata serenamente portando all’accusa di brogli elettorali e anche all’organizzazione di proteste violente come quelle di Capitol Hill a gennaio 2021.
In tutto questo, che ruolo avrà invece la politica estera? Tradizionalmente marginale, quantomeno nel definire in maniera cruciale l’esito del voto, nonostante l’approccio abbastanza differente tra gli due schieramenti in campo. Da una parte, i dem continuano a sostenere Israele ma con dei caveat sempre più rigidi per il timore che si scateni una guerra regionale in Medio Oriente, mentre non negano il loro supporto all’Ucraina contro la Russia. Dall’altra, Trump è decisamente filo-israeliano e promette di raggiungere la pace in poche ore, mentre non esiterebbe a revocare il proprio sostegno a Kyiv per intavolare una rapida trattativa con Mosca. Per quanto riguarda Taiwan e la Cina, invece, se i dem cercano di gestire la situazione con estrema cautela, Trump si farebbe sicuramente meno scrupoli nel barattare l’indipendenza di Taipei con una riduzione del deficit commerciale con Pechino. Anche in questo caso, dunque, emerge la differenza tra i due partiti: certamente più complesse e articolate le posizioni dei democratici, più lineari e improntate a un approccio transazionale da businessman quelle dei repubblicani, ovviamente influenzate dalla personalità del suo leader.