Skip to main content

La cittadinanza attiva passa attraverso la cultura. Monti spiega perché

È necessario sviluppare rapporti tra soggetti pubblici e cittadini in una logica non prettamente amministrativa e, in questo senso, la cultura può rappresentare un importante valore aggiunto

Tra le sfide più importanti che governi ed enti pubblici sono chiamati ad affrontare negli ultimi anni, rientra senza ombra di dubbio la necessità di sviluppare nuovi modelli di interazione tra la Pubblica amministrazione e i cittadini. Si tratta di un tema molto ampio, che coinvolge quasi tutte le dimensioni della vita democratica: dalle interazioni con gli uffici comunali alle segnalazioni dei disservizi, passando dall’identità digitale unica e ai conseguenti servizi abilitabili (pagamenti online, ricezione comunicazioni, consultazione documenti).

Grazie anche alla spinta di innovazione coatta registrata durante il periodo del lockdown, il nostro Paese ha mostrato una certa proattività in tale ambito di sviluppo, concentrandosi tuttavia su azioni di recupero: le grandi sfide digitali del nostro Paese erano, infatti, in primo luogo dettate dall’obsolescenza e, talvolta, dall’assenza di strumenti amministrativi digitali, e dalla necessità di avviare un processo di unificazione delle numerosissime entità amministrative che regolano i rapporti tra l’amministrazione e i cittadini.

Come indicato in un documento della Banca Mondiale dedicato al tech-government, riferendosi al contesto strategico di riferimento, “nell’altamente frammentato scenario di più di 23mila entità nell’amministrazione italiana, con diversi canali di comunicazione, procedure e punti di contatto per i servizi ai cittadini, l’obiettivo principale era sviluppare un ecosistema centralizzato di piattaforme digitali centrate sull’utente, con lo scopo di semplificare la relazione tra lo Stato, i cittadini e le imprese”.

A tale sfida il nostro Paese ha tentato di rispondere (con un discreto livello di successo) attraverso la realizzazione dell’app Io che, diffusasi durante il lockdown, ha poi iniziato a integrare differenti servizi di natura prevalentemente istituzionale.

Pur rappresentando un caso di successo (al punto da essere incluso in una raccolta dei migliori casi d’uso internazionali dalla Banca mondiale), è tuttavia da segnalare che tale app è nata per sviluppare relazioni con le “persone” nella loro qualità amministrativa di “cittadini”. Non che ciò sia un difetto, anzi. Il contesto indicato dalla Banca mondiale è realistico, e avere a disposizione un unico punto di contatto per accedere ai servizi – anche quelli di pagamento – forniti dalla miriade di entità presenti nel nostro Paese è un gigantesco passo avanti verso la contemporaneità.

Ciò che, tuttavia, richiede una maggiore riflessione è la necessità di sviluppare rapporti tra soggetti pubblici e cittadini in una logica non prettamente amministrativa e, in questo senso, la cultura può rappresentare un importante valore aggiunto.

Prima di procedere, è forse utile esprimere in modo più chiaro la distinzione tra “rapporto amministrativo” e rapporto “non amministrativo”, poiché tale distinzione è del tutto arbitraria e non risponde a canoniche definizione unitarie. Nel corso della propria giornata, un cittadino compie un ampio ventaglio di azioni, che riguardano tanto la sfera privata quanto quella collettiva. Non tutte le azioni rientranti nella sfera collettiva hanno una dimensione prettamente di rapporto con la pubblica amministrazione, così come non tutte le dimensioni di potenziale rapporto con la pubblica amministrazione hanno un valore amministrativo (pagamenti, richiesta documenti, ecc.).

Tra gli esempi più frequentemente citati di best-case in termini di “coinvolgimento dei cittadini”, si annoverano app come SeeclcikFix, FixMySrtreet, Paris&Moi, che rientrano, in sintesi, in un rapporto di “segnalazioni” con cui i cittadini informano le amministrazioni sulle condizioni di decoro urbano (buche stradali, graffiti, illuminazione, ecc.). Un concetto che, nel nostro Paese è emerso fin dagli albori della nascita delle app, con alcuni casi virtuosi che risalgono anche a più di dieci anni fa, ma che nella pratica ha mostrato sin da subito i propri limiti, proprio nei casi in cui tali strumenti si rivelano più necessari.

Detto in altri termini: in un comune con problemi significativi di manutenzione stradale e di decoro urbano, è difficile che il sindaco promuova l’apertura di una app che renda consultabili i problemi e che, in aggiunta, evidenzi il tempo tra una segnalazione di un disservizio e la sua risoluzione.

Si tratta di una considerazione ovvia nelle sue motivazioni, ma meno ovvi sono forse gli effetti che ha prodotto. Per comprenderli appieno è forse importante inquadrare la questione: è obiettivo comune sviluppare sistemi di cittadinanza “attiva”; tale cittadinanza attiva può generare molteplici effetti positivi sulla collettività di riferimento. L’utilizzo delle app si è rivelato essere estremamente efficace perché permette di adottare comportamenti proattivi all’interno di uno schema comportamentale immediato (non a caso una delle app più diffuse si chiama “vedi, clicchi e aggiusti”). Così come per tutti gli altri comportamenti, l’adozione di un comportamento di cittadinanza attiva e di partecipazione richiede una serie di cambiamenti concreti (se oggi vedi un lampione rotto, sospiri e passi oltre, domani puoi aprire l’app e segnalarlo). Più questi comportamenti sono frequenti e più diventano un’abitudine; una serie di nuovi comportamenti si associa spesso anche a una nuova modalità di “inquadramento” delle proprie azioni.

In questo grande scenario, che è quello su cui fanno leva tutte le grandi piattaforme digitali (scattare la foto di una pizza prima di mangiarla è, in ogni caso, un nuovo comportamento che prima nessuno avrebbe mai adottato), la segnalazione di buche e di lampioni rotti aveva un ruolo fondamentale: la frequenza di segnalazione, il controllo dei risultati, il rinforzo positivo derivante dall’aver concretamente contribuito al miglioramento della propria città presentano, infatti, quegli elementi che possono indurre nuovi importanti abitudini e creare anche nuove forme comportamentali.

Restando nell’alveo del quotidiano, è tendenzialmente pacifico immaginare che una persona che segnala una lampadina rotta nel proprio vialetto e che vede che quella lampadina dopo un giorno è stata aggiustata, sia più spinta a segnalare anche altre piccole manutenzioni necessarie; è altrettanto pacifico immaginare che un cittadino che arrivi a segnalare quattro o cinque richieste di manutenzione alla settimana tenda a sviluppare anche una maggiore sensibilità al decoro urbano. Sentendosi direttamente coinvolto, è pacifico ipotizzare che quel cittadino tenda a migliorare anche il proprio comportamento.

Una volta “coinvolto”, quel cittadino può anche sentirsi “spronato” a partecipare a sondaggi, richieste di opinioni, valutazioni di progetti. In altri termini, il coinvolgimento su questioni banali come una lampadina rotta può creare le condizioni per poter avviare percorsi di partecipazione più importanti, che nel nostro Paese sono quanto mai necessari. Ma l’app delle lampadine rotte, come abbiamo visto, è promossa prevalentemente in luoghi in cui l’amministrazione è virtuosa, e non deficitaria. E dato che questo è un dato minoritario, il risultato è che questo tipo di coinvolgimento è lacunoso e a “macchia di leopardo”.

In sintesi, non ci sono le condizioni strutturali che consentono la diffusione di un’app che svolga una spinta gentile inducendo le persone a pensare e agire più spesso come cittadini e non solo come “individui”. Sperando che non si renda nuovamente necessaria un’innovazione coatta, è allora forse il caso di identificare in altri contesti degli esempi di app che agevolino questo tipo di comportamento.

Uno dei campi più virtuosi è sicuramente quello rappresentato dalla citizen science, che spesso coniuga la potenza degli smartphone e i processi di gamification per coinvolgere cittadini in progetti di ricerca anche importanti attraverso lo svolgimento di piccoli, semplici e immediati task: “fare una foto alle piante della propria area”, “condividere i dati biometrici del cellulare per una ricerca sulla sedentarietà”, “giocare a un videogame per aiutare la ricerca contro l’alzheimer”.

Pur se presente, in Italia questa condivisione non ha ancora raggiunto la massa critica necessaria a divenire un comportamento diffuso, e ciò è anche probabilmente dovuto alle caratteristiche culturali del nostro Paese, che oltre alla frammentazione, presentano anche una scarsa propensione alla partecipazione estesa, così come ad un interesse ridotto verso gli ambiti più prettamente scientifici.

C’è però un altro elemento che, nel nostro Paese, è tanto diffuso quanto le buche: la cultura. La cultura è presente in quasi tutte le strade delle nostre città, in termini di palazzi, di fregi, di opere d’arte, di “lapidi a ricordarci che in quella dimora ha vissuto qualcuno di importante e che nessuno sa chi sia”. La cultura è presente anche con la street-art, con le gallerie, con gli eventi musicali, con esempi di night-life. La cultura è infine presente in “posizioni panoramiche in cui poter scattare foto bellissime”, o in luoghi di ritrovo che acquisiscono valore soltanto perché condivisi da determinati gruppi sociali.

Oltre ai disservizi e alla natura, soltanto la cultura ha una così vasta diffusione sul nostro territorio. Attesa, dunque, l’esigenza di sviluppare un comportamento proattivo, e fermo restando che il coinvolgimento mediante app può risultare utile in questo senso, la necessità di sviluppare programmi di “cittadinanza attiva” che stimolino le persone a partecipare, anche attraverso meccanismi di premialità e di gamification, può risultare l’unica strada realmente percorribile.

Ma è una necessità che devono percepire in primo luogo le amministrazioni, in particolar modo quelle comunali, che rappresentano il perimetro ideale per un’azione di questo tipo. E qui si ritorna alle difficoltà strutturali: perché le amministrazioni comunali non sempre hanno le competenze non solo per sviluppare queste azioni ma anche soltanto per pensarle. E i fondi del Pnrr prevedono competenze pro-tempore dalle quali ci si aspetta che nel corso di un incarico annuale siano in grado di risolvere decenni di disordine.

Un’azione di questo tipo, pertanto, può essere condotta soltanto in una logica di partecipazione e sviluppata secondo criteri che siano di reale interesse per i cittadini. Sviluppata in modo capillare, tuttavia, potrebbe indurre, quantomeno nelle nuove generazioni, una serie di comportamenti del tutto inattesi e, forse, anche una più forte aderenza a quel concetto di civis che troppo spesso dimentichiamo essere un tratto fondante della nostra identità collettiva.

×

Iscriviti alla newsletter