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Dall’utopia alla politica, la complessità del Piano Draghi secondo Cangini

Il rapporto sulla competitività presentato ieri a Bruxelles da Mario Draghi rappresenta il primo tentativo concreto di uscire dal dogmatismo per passare ad un approccio realista e pragmatico. Un approccio, detto con una parola antica oggi piuttosto screditata, “politico”. Senza un diretto coinvolgimento di Draghi il piano non si realizzerà. E non si vede quale carica europea potrebbe essere conferita all’ex governatore della Bce per renderlo istituzionalmente responsabile della realizzazione del proprio progetto di sviluppo. Chissà che la possibile vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, con le conseguenti ricadute commerciali e militari, non possa rappresentare lo choc di cui l’Europa ha bisogno per ripensare se stessa. Il corsivo di Cangini
Sosteneva il filosofo liberale Karl Popper che il limite della Comunità europea è stato quello di aver “ceduto all’ingegneria utopistica“ dando di conseguenza vita ad un’Europa “non democratica”bensì “dogmatica”.
Il rapporto sulla competitività presentato ieri a Bruxelles da Mario Draghi rappresenta il primo tentativo concreto di uscire dal dogmatismo per passare ad un approccio realista e pragmatico. Un approccio, detto con una parola antica oggi piuttosto screditata, “politico”.
Allo stato, è ragionevole scommettere che non se ne farà nulla. Come dimostra la levata di scudi contro il piano Draghi di ex alleati di governo come la Lega e il Movimento 5stelle, le forze populiste rappresentate nei parlamenti nazionali e nell’Europarlamento sono ferocemente contrarie a quella che considerano un’inutile cessione di sovranità alle strutture tecnocratiche di Bruxelles.
Governi come quello ungherese sono contrari all’abolizione del diritto di veto sulle decisioni della Commissione. Governi come quello tedesco sono contrari all’idea draghiana di un debito comune per poter mobilitare investimenti pari al 5% del Pil europeo (per capirci, il piano Marshall statunitense valeva meno del 2%).
Prevale, dunque, l’illusione, evidentemente fondata su presupposti demagogici, di Stati nazionali capaci di gestire autonomamente le sfide della globalizzazione e di resistere stoicamente alle minacce commerciali e militari rappresentate dai risorgenti imperi.
Prevalgono gli egoismi nazionali, interpretati da capi di Stato e di governo dalla modesta statura personale e per giunta afflitti da una strutturale debolezza politica. Uomini come il cancelliere tedesco Scholz. Sembrano, dunque, mancare le condizioni politiche generali affinché il piano di Mario Draghi diventi realtà.
Sembrano mancare le condizioni politiche generali anche perché, con tutta evidenza, mancano gli uomini in grado di darsi obiettivi così lungimiranti ed ambiziosi. Come ha scritto Claudio Tito su Repubblica dando voce a un sentimento diffuso a Bruxelles, “ci può essere un effetto Draghi senza Draghi?”.
La domanda suona retorica, la risposta è no. Senza un diretto coinvolgimento di Mario Draghi il piano non si realizzerà. E non si vede quale carica europea potrebbe essere conferita all’ex governatore della Bce per renderlo istituzionalmente responsabile della realizzazione del proprio progetto di sviluppo.
Nella sua tutto sommato breve storia, l’Unione europea ha fatto imprevisti passi avanti solo quando ha rischiato di essere travolta da eventi esterni. Sono stati la paura e il male comune, più della determinazione e della lungimiranza, i fattori che hanno accelerato il processo di costruzione di istituzioni e regole comuni.
Chissà che la possibile vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, con le conseguenti ricadute commerciali e militari, non possa rappresentare lo choc di cui l’Europa ha bisogno per ripensare se stessa.
E magari per ripensarsi in una logica di sviluppo a due velocità: un nocciolo duro di Stati che va avanti, in attesa che gli altri lo raggiungano.

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