L’Ungheria sta pianificando l’invio di 200 soldati in Ciad per contrastare terrorismo e immigrazione. Ma dietro la missione militare si celano interessi economici. Che rischiano di rendere ancora più accesa la competizione per l’influenza in Africa
L’Ungheria è intenzionata a inviare circa duecento soldati in Ciad per combattere il terrorismo e arginare la migrazione illegale verso l’Europa. Questa proposta, concepita da Budapest nell’ambito dell’European Peace Facility, dovrebbe essere finanziata con 14 milioni di euro provenienti dai fondi comunitari, e sarà discussa il prossimo 26 settembre dagli ambasciatori dell’Unione Europea.
A spingere verso questa decisione sarebbe, apparentemente, la questione migratoria. Lo stesso Viktor Orbán ha dichiarato che “la migrazione dall’Africa verso l’Europa non può essere fermata senza il coinvolgimento dei Paesi della regione del Sahel”. Tuttavia, molti esperti di sicurezza ritengono che un contingente di 200 soldati non avrà un impatto significativo, soprattutto in un paese grande quasi quattordici volte l’Ungheria. In realtà, il vero obiettivo di Orbán sarebbe un altro: accedere alle ricche risorse di minerali critici del Ciad.
Negli ultimi mesi Budapest ha rafforzato i suoi legami con N’Djamena. Oltre a proporre l’apertura di un’ambasciata, l’Ungheria ha offerto un sostegno di quasi duecento milioni di dollari per il settore agricolo-alimentare del Ciad, e 25 borse di studio annue per studenti ciadiani che desiderano studiare nelle università ungheresi. E Gaspar Orbán, figlio del premier ungherese, è stato nominato “ufficiale di collegamento” per guidare la missione in Ciad.
La strategia adottata dal leader ungherese sembra ispirarsi a quella della Russia di Vladimir Putin, che prevede investimenti minimi in sicurezza per ottenere influenza duratura. Alcuni analisti temono anche che Budapest, considerata vicina al Cremlino, possa favorire indirettamente gli interessi russi nella regione del Sahel.
Nonostante l’importanza geopolitica del Ciad, il Paese non ha mai conosciuto la democrazia ed è uno dei più poveri al mondo, con oltre il 40% dei suoi 17,7 milioni di abitanti che vive al di sotto della soglia di povertà. L’attuale presidente, Mahamat Idriss Déby Itno, ha preso il potere nell’aprile 2021, con il sostegno della Francia, dopo la morte del padre, Idriss Déby Itno, ucciso in uno scontro con i ribelli. Durante i suoi trent’anni di governo autoritario, il Ciad è stato segnato da nepotismo e corruzione. Anche le recenti elezioni, tenutesi nel maggio 2023 in modo “formalmente democratico”, sono state largamente criticate, con i più forti oppositori del regime che sono stati esclusi dalla competizione elettorale, così da garantire la vittoria a Déby junior.
Alcuni analisti ritengono che Déby stia seguendo le orme del padre, sfruttando gli interventi militari internazionali per mantenersi al potere. Il governo militare del Ciad si è reso indispensabile nella lotta contro il jihadismo nella regione, ma al contempo ha creato un contesto che permette ai gruppi armati di prosperare. Così come gli altri Paesi del Sahel, il Ciad non ha affrontato adeguatamente le cause profonde dell’insicurezza nei loro territori, preferendo basarsi su accordi militari con attori esterni. Le cui rivalità geopolitiche hanno aggiunto un altro strato di complessità alla crisi già esistente. L’Africa è diventata un campo di gioco geopolitico, dove non solo attori del calibro di Francia, Russia e Cina, ma anche con potenze emergenti come Turchia, Qatar e Emirati Arabi Uniti che competono per le risorse minerarie critiche, opportunità commerciali e di sicurezza. A questi Paesi, presto potrebbe aggiungersi anche l’Ungheria.
Che nel suo tentativo di guadagnare influenza in Africa, andrebbe a porsi come un nuovo competitor per il Piano Mattei. In un contesto già affollato da diverse intenzioni ed allineamenti, ma che competono per le stesse risorse strategiche e gli stessi spazi di influenza, Orbán cerca di ritagliarsi una posizione sfruttando investimenti mirati e la presenza militare. La sua vicinanza con il Cremlino e l’adozione di tattiche di potere simili a quelle russe rappresentano una sfida ulteriore per l’Italia, che dovrà navigare con attenzione tra gli alleati europei e i rivali emergenti per far avanzare la propria agenda in Africa.