Hezbollah e Iran non vogliono una guerra aperta, Israele (forse anche per questo) sposta sempre al limite l’asticella dello scontro. Gli Usa provano, anche con il Quint, a gestire il caos
Ci sono “spazi per trattare”, dice il ministro degli Esteri Antonio Tajani da Parigi, dove ha partecipato alla riunione del Quint (formato di dialogo sulla politica internazionale con Stati Uniti, Germania, Francia e Regno Unito). Tuttavia potrebbero non bastare le trattative per fermare l’escalation militare tra Israele e Hezbollah. Lo spostamento al Libano della guerra scatenata nella Striscia di Gaza da Hamas — dopo l’attacco del 7 ottobre — è questione di calcolo: politico, tattico, strategico.
È possibile che il governo di Benjamin Netanyahu cominci a valutare l’opzione che per rimanere al potere e convincere i cittadini israeliani sulla bontà della risposta all’aggressione subita (risposta che ha causato già oltre 40mila morti, molti civili, senza però trovare forme di vittorie e soluzione), sia ormai giunta l’ora di una redde rationem. Con Hezbollah in primis, gruppo armatissimo ed emblema dell’Asse della Resistenza creato negli anni dall’Iran come strumento di influenza muscolare regionale, e secondariamente come forma di pressione esistenziale su Israele. E poi con l’Iran appunto, che forse non lascerebbe Hezbollah in balia dell’offensiva israeliana. Forse.
Nel calcolo di Teheran infatti, una guerra aperta, almeno per ora, sembra da escludere. Troppo coinvolgimento — militare, economico, politico e culturale. Troppi rischi, innanzitutto subire colpi pesanti (in particolare al sistema del programma nucleare). Ma poi anche il rischiare di dimostrare di essere meno forte del narrato, innescando una destabilizzazione interna che — visto già come si muove l’insofferenza diffusa riguardo al regime — chissà dove potrebbe portare. A cascata, quel “forse” riguarda anche Hezbollah: il Partito di Dio ha raggiunto presa politica e sociale (e culturale), tale che lo status quo gli è conveniente. Il rischio è che una guerra contro Israele sia devastante, impegnandone la gran parte dell’arsenale, disarticolandone lo scheletro organizzativo. Attacchi come quello ai cercapersone servono a questo: dimostrare capacità tecnica, e dunque riaffermare la deterrenza.
Israele da parte sua è consapevole che aprire il fronte contro Hezbollah significherebbe combattere una guerra vera, contro un avversario preparato — al di là dell’intervento o meno iraniano. Hezbollah non è Hamas. La guerra al Nord, dove secondo il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, si sta spostando “il centro di gravità” di questa “nuova fase”, non è per niente simile — a livello tattico e per valore strategico — all’invasione della Striscia. Finora gli scontri sono stati su un livello basso: Hezbollah ha costantemente sparato missili oltre confine, Israele ha martellato postazioni e leadership. Ci sono state svariate vittime su entrambi i fronti, migliaia di città o che vivono le aree settentrionali dello Stato ebraico sono sfollati per ragioni di sicurezza. Ma alzare il livello di intensità e coinvolgimento potrebbe essere rischioso anche per Israele.
L’attacco ai dispositivi di Hezbollah è stata una delle imprese più audaci compiute dagli israeliani (ammesso che lo sia stato, come bisogna scrivere in assenza di informazioni ufficiali): ciò che resta in dubbio è se una mossa così audace farà qualcosa per risolvere i suoi urgenti problemi, argomenta il Wall Street Journal. Le azioni servono per provocare il nemico e spingerlo a un passo falso, a un azzardo da cui poi partire con la reazione violenta che comporta comunque rischi? Hanno lo scopo ultimo di consoldiare l’occupazione di Gaza e ristabilire una buffer-zone controllata con il Libano come vorrebbero gli alleati più radicali di Netanyahu? Una guerra potrebbe essere risolutiva, ma anche drammatica e incontrollabile. E poi va valutata anche sotto il profilo dell’immagine pubblica internazionale. Vivere nel mito della Guerra dei Sei Giorni è rischioso, perché i tempi sono cambiati e le percezioni su Israele non sono totalmente concordi.
Prima di andare avanti, una precisazione sull’accaduto con i cercapersone: numerosi esperti di diritto internazionale, tra cui un gruppo delle Nazioni Unite, hanno accusato gli autori di violare il diritto internazionale e di svolgere una forma di terrorismo, indipendentemente dal fatto che si trattasse di un tentativo di indebolire una nota organizzazione terroristica. La sofisticazione dell’attacco solleva profonde domande sul futuro della guerra informatica, sulla vulnerabilità delle catene di approvvigionamento tecnologico e sull’etica dietro tali operazioni. Chiaramente Israele non ha pubblicamente rivendicato l’azione, ma in privato con i media internazionali funzionari hanno gongolato per le drammatiche capacità dimostrate: ma a che costo?
Per il Pentagono, nemmeno Israele intende attaccare. Gerusalemme non vuole “un’incursione su larga scala”, ma Washington resta preoccupata per due ragioni. Primo, il governo Netanyahu potrebbe non essere più gestibile e non ascolta o condivide la richiesta di autocontrollo americana. Secondo, spostare l’asticella del limite costantemente in avanti come fatto in questi mesi, produce un contesto appunto sempre al limite: e il rischio quando si gioca al limite è che si scivoli verso derive incontrollabili. In entrambi i casi gli americani sanno che potrebbero trovarsi coinvolti, perché seppure senza volontà, non lascerebbero solo l’alleato. “Mentre Israele apprezza e rispetta il sostegno degli Stati Uniti, alla fine farà ciò che è necessario per salvaguardare la sua sicurezza”, ha detto due giorni fa Netanyahu all’inviato statunitense Amos Hochstein, secondo una dichiarazione dell’ufficio del primo ministro.
E però, il quadro diventerebbe critico nell’ambito di Usa2024. Per l’amministrazione Biden una guerra sarebbe problematica. Perché quasi corroborerebbe quello che ripete spesso Donald Trump nei suoi comizi (Joe Biden ci sta portando alla terza guerra mondiale); perché sarebbe in Medio Oriente, luogo delle “endless wars” contro cui Trump arringa da anni, trovando ampi consensi; perché lo zoccolo leftist del partito detesta l’idea di un coinvolgimento a favore (e per colpa) di Israele. Anche per questo Washington ha gettato tutto il suo peso diplomatico sul piano di cessate il fuoco — e scambio di ostaggi — sponsorizzato da Biden in persona. Ma i colloqui, su cui gli Usa hanno speso per primo il direttore della Cia, sembrano a un punto morto.
D’altronde, se tutto si lega (e tutto si lega, basta pensare che Hezbollah continua a dichiarare che lotta per i palestinesi, come gli Houthi, sebbene l’agenda diretta sia determinante), negoziare con Hamas mentre si combatte con i libanesi, si è attaccati dagli yemeniti e minacciati dall’Iran, pare impossibile. I partner regionali americani sono nervosi, tanto che il ministro degli Esteri egiziano, Badr Abdelatty, lancia l’accusa di “atto di grave escalation [che] porterà la regione a ciò contro cui abbiamo messo in guardia, che è una guerra a tutto tondo che trasformerà la regione in terra bruciata”, parlando a fianco del segretario di Stato americano, Antony Blinken — volato poi a Parigi.