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Ecco la “dottrina orale” di Francesco. La riflessione di Cristiano

Il papa ha scelto tanti sistemi comunicativi, il discorso pubblico in privato è uno, che si concretizza in conversazioni private poi pubblicate e nelle omelie a Santa Marta. Riccardo Cristiano riflette sul significato del “discorso a tappe” del pontefice racchiuso nel nuovo volume “Sii tenero, sii coraggioso”, (Garzanti – Lev), curato da padre Antonio Spadaro

Arriva in libreria “Sii tenero, sii coraggioso”, (Garzanti – Lev) che raccoglie le conversazioni di papa Francesco con i gesuiti incontrati nel mondo durante i suoi viaggi apostolici. Il volume è curato da padre Antonio Spadaro, sottosegretario del Dicastero vaticano per la cultura e l’educazione. Il primo valore del libro è quello di raccogliere questi colloqui che hanno avuto luogo lontano dai microfoni ma che dopo i viaggi sono stati pubblicati, singolarmente, su La Civiltà cattolica, rivista diretta sino allo scorso anno dal padre Spadaro, testimone di tutti i colloqui raccolti. Ne emerge un discorso a tappe, che illustra le attese dei gesuiti in diversi Paesi del mondo, le loro necessità e le risposte del papa. Si potrebbero fare tantissimi esempi; eccone uno.

In Irlanda, dove la Chiesa è provata dagli abusi sessuali contro i minori, la prima domanda è su questo, sul cosa fare. Ecco la risposta: “Dobbiamo denunciare i casi dei quali veniamo conoscenza. E l’abuso sessuale è conseguenza dell’abuso di potere e di coscienza, come dicevo prima. L’abuso di potere esiste: chi tra di noi non conosce un vescovo autoritario? Sempre nella Chiesa sono esistiti superiori religiosi o vescovi autoritari. E l’autoritarismo è il clericalismo. A volte si confonde l’invio in missione in maniera autorevole e decisa con l’autoritarismo. E invece sono due cose diverse. Bisogna vincere l’autoritarismo e riscoprire l’obbedienza dell’invio in missione”.

Si parla molto, forse mai abbastanza, di questa emergenza, ma di una lettura così profonda e però anche empirica, basata sull’esperienza concreta di ogni sacerdote di una stortura, e quindi dell’indice puntato sull’autoritarismo non si parla molto, purtroppo.

Il discorso torna in Perù, la questione viene affrontata lungamente dal papa, che parla di ipocrisia, ritorna sul potere, l’abuso di autorità, l’abuso sessuale e aggiunge i pasticci economici. Ma colpisce racontando di sé: “Il 24 marzo in Argentina è la memoria del colpo di Stato militare, della dittatura, dei desaprecidos… ho preso la metropolitana e sono sceso non a Piazza de Mayo, ma sei isolati più in là. La piazza era piena.. e ho percorso quegli isolati per entrare dal lato. Mentre stavo per attraversare la strada, c’era una coppia con un bambino di dure o tre anni, più o meno, e il bambino correva avanti. Il papà gli ha detto: “vieni, vieni, vieni qua… Attento ai pedofili!” Che vergogna ho provato. Che vergogna! Non si sono resi conto che ero l’arcivescovo, ero un prete e…che vergogna! A volte si tirano fuori i premi di consolazione e qualcuno perfino dice: “D’accordo, guarda le statistiche… il.. non so… 70% dei pedofili si trova nell’ambito familiare, dei conoscenti. Poi nelle palestre, nelle piscine […] Ma è terribile anche se fosse uno soltanto uno di questi nostri fratelli […] Bisogna ascoltare che cosa prova un abusato o un’abusata. Di venerdì – a volte si sa e a volte non si sa- mi incontro abitualmente con alcuni di loro. In Cile pure ho avuto un incontro. Siccome il loro processo è durissimo, restano annientati! Annientati!”.

Un altro esempio: siamo in Congo, dove esiste uno specifico rito congolese. Un gesuita gli chiede perché sembra che gli piaccia il rito congolese e di spiegare la sua immagine di Chiesa come ospedale. Ecco la risposta: “Il tiro congolese mi piace, perché è un’opera d’arte, un capolavoro liturgico e poetico. È stato fatto con senso ecclesiastico e senso estetico. Non è un adattamento, ma una realtà poetica, creativa, per essere significativo e adeguato alla realtà congolese. Per questo sì, mi piace e mi dà gioia. La Chiesa come ospedale da campo. Per me la Chiesa ha la vocazione dell’ospedale, del servizio per la cura, la guarigione e la vita. Una delle cose più brutte della Chiesa è l’autoritarismo, che poi è uno specchio della società ferita dalla mondanità e dalla corruzione. E la vocazione della Chiesa è alla gente ferita. Oggi questa immagine è ancora più valida, considerando lo scenario di guerra che stiamo vivendo. La Chiesa deve essere un ospedale che va dove c’è gente ferita. La Chiesa non è una multinazionale della spiritualità. Guardate in santi! Curare, prendersi cura delle ferite che il mondo vive! Servire la gente! La parola “servire” è molto ignaziana. “In tutto amare e servire” è il motto ignaziano. Voglio una Chiesa del servizio”.

Emerge anche qui, in tutt’altro contesto, l’autoritarismo. E il servizio ai feriti rispetto a temi, o idee, più dibattuti? Meno. Sono solo due esempi di un discorso che si articola, evolve, ma forse spiega un po’ il titolo; nella manchette che avvolge il volume si cita il papa così: “Vicinanza, compassione e tenerezza. Questo è lo stile di Dio”. Una manchette non banale, che diviene più chiara leggendo. Infatti è molto rilevante ciò che il papa dice incontrando poco dopo i gesuiti nel Sud Sudan, quando gli chiedono cosa speri davanti al fatto che la fede va a sud ma i soldi no. Domanda molto profonda a cui il papa dà una risposta complessa di cui si può citare solo un passaggio che evidenzia però lo stile di Bergoglio, che torna alla comprensione partendo dalla propria esperienza e scelta: “La scelta di Sant’Ignazio sulla povertà – al punto da far fare un voto speciale ai porfessi- è una scelta contro il paganesimo, contro il dio denaro. Oggi la nostra è una cultura pagana di guerra, dove conta quante armi hai. Sono tutte forme di paganesimo”. Credo debba colpire, soprattutto pensando a come presentiamo i conflitti di cui qui parla e la concretezza per i gesuiti della risposta.

Si potrebbe, si dovrebbe proseguire a lungo, perché il volume è ricchissimo di questi “esempi” e quanto qui presentato, secondo la sensibilità o le priorità di chi scrive, certo non esaurisce il senso e il valore di un volume prezioso. Spiega molto la convinzione del curatore, che ascoltando di persona questi colloqui ha subito colto che questo materiale non poteva restare riservato. E ha deciso autonomamente di registrare, con il suo telefono portatile. Non erano parole private dette in pubblico, ma parole pubbliche dette in privato. È stato importante che Francesco abbia accettato la pubblicazione dei testi e che ora siano raccolti in volume, perché solo così, ad esempio, si può tentare il collegamento qui fatto (uno dei mille possibili) tra Irlanda, Congo e Perù, la costanza della critica all’autoritarismo, e quindi al clericalismo. E così spostandosi in Kazakhstan, il discorso cambia ma rimane e si fa fulminante, illuminante, perché introduce l’enormità evidente e narrata, testimoniata, nel suo “discorso”: “I governanti dittatoriali sono crudeli. C’è sempre crudeltà nella dittatura” Se il papa si fosse fermato qui avrebbe fatto un tipo di affermazione. Ne ha fatto un altro tipo, aggiungendo: “In Argentina prendevano la gente, la mettevano su un aereo e poi la buttavano nel mare. Quanti politici ho conosciuto che sono stati in prigione e torturati. In queste situazioni si perdono i diritti, ma anche la sensibilità umana. Io l’ho sentito in quel momento. Tante volte ho pure sentito bravi cattolici dire: “Se la meritano questi comunisti! Se la sono cercata!” È terribile quando l’idea politica supera i valori religiosi. In Argentina sono state le mamme a fare un movimento contro la dittatura e cercare i loro figli. Sono le mamme ad essere state coraggiose in Argentina”.

Leggendo, legando, si ha l’impressione che per presentare questo volume gli esempi non bastino mai, andrebbe trovato il senso di tutto, a partire da ciò che qui non viene citato. Ma come farlo in poche parole? Probabilmente ha ragione padre Antonio Spadaro, che cerca il filo esplicativo nel metodo. Francesco ha scelto tanti sistemi comunicativi, questo del discorso pubblico in privato è uno, che si concretizza in queste conversazioni private poi pubblicate e nelle omelie a Santa Marta, che hanno seguito un iter simile. E qual è? Per padre Spadaro qui emerge che “c’è una tensione vitale che non può essere addomesticata, con un labor limae, con un lavoro di cesello da laboratorio. Bisogna prendere le sue parole come sono proferite. Siamo davanti a una vera e propria dottrina orale […]. Francesco ha compreso che la comprensibilità non è la stessa cosa della chiarezza. Si può essere molto chiari, ma non essere capiti. I discorsi astratti possono essere semplici e chiari, ma non davvero compresi da chi ascolta, perché capaci solo di sfiorare la superficie della consapevolezza. A volte la chiarezza – in alcuna casi anche della dottrina – può essere anzi inversamente proporzionale alla credibilità. L’uomo di oggi, più che di discorsi semplicemente chiari, che non fanno una piega, ha bisogno di discorsi che siano credibili, portatori della complessità delle situazioni, delle esperienze, della vita che a volte non è e non può essere così “chiara”. Il linguaggio chiaro è quello della norma. Se il pastore lo assume come modalità comunicativa finisce per confondersi e vestire i panni del legislatore e del giudice”.

Questo emerge come il punto di fondo e profondo, detto ancora meglio: “Il linguaggio teologico rischia di diventare un prodotto della debolezza del logos occidentale, per cui la ricerca di un linguaggio che dia ragione della razionalità della fede rischia, alla fine, di condurre lontano rispetto alla questione del reale futuro della fede…”.


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