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Per rifare il Mediterraneo non si può prescindere da Beirut. La riflessione di Cristiano

Non esiste la possibilità di unirsi nel giudizio della storia, delle giusta scaletta delle sue tante pagine, anche contraddittorie. Ma Beirut è evidente che offra un modello respinto dalle tante forze retrive e identitarie e questo modello, borghese, cosmopolita e sindacalizzato, ha avuto un enorme successo. Per questo bisognerebbe riuscire a capire che volerle bene servirebbe a noi, a un nostro futuro migliore. Il commento di Riccardo Cristiano

Non abbastanza capito, il Libano torna a guardarsi intorno smarrito; i sentimenti in queste ore non sono fondamentali, contano i fatti, ma anche sentirsi capiti in questi frangenti aiuta; non è così. Non è stato irreprensibile nella sua storia il piccolo Libano, certamente no. Non solo i cristiani, mai abbastanza criticati per quegli eccessi di identitarismo che hanno saputo portare alcuni di loro fino al massacro di Sabra e Shatila, altri più tardi ad allearsi con Hezbollah per conquistare con il loro voto il palazzo presidenziale. Anche gli altri, tutti gli altri, non sono stati irreprensibili. I sunniti hanno discriminato gli sciiti per tanto tempo in epoca a ottomana, gli sciiti si sono fatti irretire da Hezbollah che è arrivato ad assassinare il leader e premier sunnita, Rafiq Hariri. Nessuno è stato irreprensibile, a cominciare da chi lo ha occupato: eppure il Libano meriterebbe di essere amato e capito per la sua storia, la sua peculiarità: è il solo Paese arabo e arabista che ha avuto, opposta a quella contadina, latifondista e tribale, una storia borghese e di camalli sindacalizzati. Si può usare questo vocabolo perché “camallo” è termine di origine araba, “faticatore a spalla”. È il suo porto, collegato alla ferrovia che la univa già nell’Ottocento a Damasco,  che ha fatto di Beirut un luogo più grande di quel che è geograficamente è.

Il conte Edmond De Perthuis, incaricato dalla Sublime Porta di costruire prima l’uno e poi l’altro, non si aspettava lo sciopero; per i suoi modi da signore delle ferriere, le sue paghe da fame. Provò la forzatura e perse. Il grande carico che voleva far entrare in porto finì sui fondali del mare.

Più tardi però i notabili, futuri borghesi della città, si unirono al di là dei confini di fede, per chiedere investimenti a Istanbul: Beirut domandava status di capitale regionale nell’impero. E lo faceva con unità interconfessionale.

Borghesia e ceto lavoratore sindacalizzato, questa è l’essenza della storia di Beirut, quella che ne fa una città faro per il suo mondo.  L’ultimo grande scalo del Levante a far sentire la sua voce, anche se chi non ama la cultura cosmopolita la vuole o vorrebbe zittire, come è già stato per gli altri grandi scali del Levante, come Alessandria, Smirne, Salonicco.

La gente di Beirut avrà paura? Si deve ritenere di sì. La storia, il passato, non rende avvezzi all’orrore. Ma a noi toccherebbe cercare di capire, voler bene a una città, a una storia, a una indispensabile necessità. Beirut infatti è stata e rimane ancora una città araba, europeizzata, mediterranea, moderna. Senza Beirut non si potrà rifare il Mediterraneo cosmopolita? Lo temerei.

Non esiste la possibilità di unirsi nel giudizio della storia, delle giusta scaletta delle sue tante pagine, anche contraddittorie. Ma Beirut è evidente che offra un modello respinto dalle tante forze retrive e identitarie e questo modello, borghese, cosmopolita e sindacalizzato, ha avuto un enorme successo. Per questo bisognerebbe riuscire a capire che volerle bene servirebbe a noi, a un nostro futuro migliore.


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