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Nella manovra il primato della politica nazionale sui vincoli europei. L’analisi di Polillo

I dati del Def dimostrano che l’obiettivo del 3%, nel 2026, è perfettamente raggiungibile. Basterebbe rimanere fermi e tutto si risolverebbe. Nella statistica può darsi, in politica, invece, è semplicemente impossibile. Gianfranco Polillo spiega tutti i nodi della manovra

Il comunicato del Mef (17 settembre) sul Piano strutturale di bilancio, in cui si riassumono le caratteristiche delle future manovre, deve essere opportunamente decrittato, per evitare possibili equivoci. La colpa, se così si può dire, delle relative incertezze non può essere attribuita ai tecnici di Via XX Settembre, quanto alle complesse procedure previste dal nuovo Patto di stabilità e crescita. Che avranno pure semplificato, come più volte indicato dalla stessa Commissione europea, ma non fino al punto da rendere immediatamente trasparente ciò che, per sua natura, conserva comunque un forte elemento di complessità. Che si traduce poi in una scarsa accountability.

Per ottenere i risultati sperati è necessario avere sottomano sia i dati numerici che le regole codificate nei nuovi regolamenti. Nel comunicato è detto che “il tasso di crescita della spesa netta” che rappresenta “il nuovo indicatore univoco sottoposto alla sorveglianza della Commissione” europea “si attesterà su un valore medio prossimo all’1,5 per cento”. Corretto! Ma con un’ulteriore precisazione. Questo vincolo varrà per l’Italia solo all’indomani del 2026 quando (è sperabile) che il Paese possa essere uscito dall’attuale procedura per il deficit eccessivo.

Quella procedura ordinaria, per così dire, secondo quanto dispone il Regolamento n. 1263 del 2024 (articolo 7), si applica solo a partire dall’anno “successivo” in cui “si prevede l’abrogazione della procedura per i disavanzi eccessivi a norma del regolamento (Ce) n. 1467/97, fino alla fine del periodo di aggiustamento.” Durante questa fase, invece, valgono le regole, previste dal Regolamento n. 1264 del 2024 (articolo 3) secondo le quali: “se la procedura per i disavanzi eccessivi è stata avviata sulla base del criterio del disavanzo, per gli anni in cui si prevede che il disavanzo pubblico superi il valore di riferimento, il percorso correttivo di spesa netta è coerente con un aggiustamento strutturale minimo su base annua pari almeno allo 0,5 % del Pil come parametro di riferimento”.

Le scelte del ministro dell’Economia, come da questi ricordato nell’incontro con le organizzazioni sindacali, hanno preso, invece, una strada diversa: stringere, innanzitutto, sul rientro del deficit al 3%, quindi prevedere interventi di natura strutturale a partire dal 2027 per i successivi quattro anni. Durante questo secondo periodo dovranno essere applicate all’Italia le regole della Dsa (Debt sustainability analysis) che, a loro volta, comporteranno una riduzione del debito e l’ulteriore abbattimento del deficit fino all’1,5 per cento del Pil. Il tutto accompagnato dalle necessarie riforme che dovrebbero contribuire a rendere più facile il perseguimento di quegli obiettivi e, al tempo stesso, rendere l’economia italiana più resiliente. Impegni che sono l’esatta contropartita del posticipo a 7 anni dell’obiettivo di riequilibrio finanziario.

Si poteva fare diversamente? Certamente. Già a partire dal tempo necessario per giungere all’abrogazione della procedura per i disavanzi eccessivi. Considerato il deficit 2003, pari al 7,18%, si poteva utilizzare l’intero periodo dei 7 anni per portarlo ad un valore pari al 3% con un contenimento del deficit e quindi della domanda netta pari solo allo 0,5% del Pil all’anno, invece che dell’1,5 come indicato. Scelta coraggiosa, quindi, quella del Ministro Giorgetti, che sarà indubbiamente apprezzata dai mercati. Sempre che il tasso di crescita del Pil e gli altri parametri ipotizzati nei documenti governativi, trovino poi conferma nella realtà dei prossimi anni.

A questi ultimi fa, del resto esplicito riferimento il comunicato quando accenna ai “principali saldi di finanza pubblica già previsti dal programma di stabilità dello scorso aprile”. Programma che, com’è noto, costituisce la parte prima del Def. Colà si ipotizza una crescita media del Pil pari all’1,1% all’anno, con un nominale del 3,4%: in grado di sostenere quindi una crescita della spesa netta prossima all’1,5%. Per via dell’aumento delle entrate fiscali che possono essere calcolate intorno al 45/46% del Pil. Sulla scorta di queste ipotesi l’indebitamento è previsto in discesa fino ad arrivare nel 2026 al 3% del Pil. Vi sarebbe così la chiusura del cerchio a dimostrazione delle ottime scelte di Via XX Settembre. Anche se bisogna subito aggiungere che i dati 2023 sono leggermente peggiori delle previsioni, ma non tali da inficiare il ragionamento appena svolto.

Comunque prudenza. Come ha ricordato il Ministro, nel suo incontro con i sindacati, la “fase” è “complicata”. Lo è al punto da richiedere un ulteriore approfondimento. I dati del Def dimostrano che l’obiettivo del 3 per cento, nel 2026, è perfettamente raggiungibile. Basterebbe rimanere fermi e tutto si risolverebbe. Nella statistica può darsi, in politica, invece, è semplicemente impossibile. Se il tasso di crescita nominale del Pil, nel 2025, sarà pari al 3,4 per cento, come ipotizzato dal Def, le entrate fiscali potranno aumentare di un “valore medio prossimo all’1,5%”. In grado di coprire le maggiori spese nette. L’incognita che resta è come far fronte alle maggiori richieste di interventi.

Le previsioni del Def sono a “legislazione invariata”. Considerano, in altre parole, gli oneri che derivano dalle leggi esistenti. Nella programmazione di bilancio, almeno per l’anno successivo, ciò che conta sono invece i nuovi obiettivi, in termini di spesa e di entrata che si vogliono raggiungere. Obiettivi che possono anche riguardare spese una tantum da rendere poi permanenti. Nel suo incontro con le organizzazioni sindacali il ministro ha già anticipato le priorità inserite nel piano: “rendere strutturali alcune misure coerentemente con quanto annunciato e in maniera sostenibile (diminuzione cuneo fiscale per lavoratori basso e medio reddito e riforma delle aliquote Irpef) “questa è la prima inderogabile decisione”. Sulla sanità ha confermato l’impegno a tenere la spesa sopra all’1,5% in rapporto sul Pil: “questo significa che altre spese devono essere più basse”. Sui contratti di lavoro pubblico, Giancarlo Giorgetti ha, infine, confermato l’impegno “a recuperare i valori dell’inflazione, ovvero circa il 2% annuo”.

Difficile quantificare il relativo onere dell’intero complesso, se non ricorrendo ad anticipazioni giornalistiche, da prendere tuttavia con il beneficio d’inventario. Si parla in generale di un onere compreso tra i 16 ed i 20 miliardi di euro a seconda delle voci considerate. Impegni da coprire, in parte o in tutto, con le maggiori entrate fiscali. Qui le informazioni hanno maggiori elementi di certezze. Il Dipartimento delle finanze del Mef, nel suo ultimo bollettino (Rapporto sulle entrate – luglio 2024), ha indicato in oltre 22 miliardi la crescita delle entrate tributarie e contributive rispetto ai primi sette mesi dell’anno precedente. Nello stesso tempo non sono ancora noti i dati sul concordato preventivo per le partite Iva.

Insomma dal fisco possono derivare buone notizie, destinate a fornire le coperture indispensabili ai possibili nuovi impegni governativi. Ma non è tutto così meccanico. Le maggiori entrate si riferiscono solo alla prima parte dell’anno, si tratterà di vedere se il trend continuerà fino a San Silvestro. Ma anche una volta conosciuto il maggior gettito, lo si dovrà mettere a confronto con le previsioni relative al 2025 e verificare se quell’aumento era tutto o in parte era già stato contabilizzato ai fini della determinazione dell’indebitamento per il 2025. Ai fini delle necessarie coperture potranno essere utilizzate solo le eventuali eccedenze di entrate, rispetto ai valori di bilancio. Che purtroppo non sono stati indicati nei documenti governativi. Nuove incognite, quindi, che contribuiscono a rendere aleatorio qualsiasi giudizio anticipato.

Si dovrà quindi solo aspettare. Tanto più a causa di un’ipoteca, che pesa come un macigno sulle future previsioni. Nel Def 2024, in una tabella talmente piccola da risultare quasi invisibile (pag.56), era contenuta un’indicazione che rischia di alterare completamente il quadro finora indicato. Descrive infatti “lo scenario a politiche invariate” dal 2023 al 2027. Vale a dire il quadro contabile che dovrà comprendere anche quelle spese che è obbligatorio sostenere, in quanto riflesso di impegni internazionali o di fattori legislativi. Spese che sono calcolate in termini di incidenza sull’indebitamento. Destinato ad aumentare di 0,9 punti di Pil il prossimo anno ed 1 nel 2026. Facendolo salire al 4% proprio nel momento in cui si dovrebbe uscire dalla procedura per i disavanzi eccessivi. Questi quindi i nodi della manovra. Ai tecnici di Via XX Settembre, che dispongono delle informazioni necessarie, il compito di scioglierli. Per quanto ci riguarda, siamo fiduciosi.



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