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Occhio agli investimenti di Usa e Cina sull’IA per capire la geopolitica. Parla Aresu

Gli equilibri geopolitici saranno sempre di più decisi dall’intelligenza artificiale. Per questo sarà importante “monitorare” gli investimenti soprattutto di Cina e Stati Uniti concentrati su data center, infrastrutture materiali e immateriali, semiconduttori e chimica. Cos’ha provocato il caso OpenAI. E l’Europa? Il peso regolatorio per le imprese rappresenta un fardello che frena realmente la competitività. Colloquio con il consigliere scientifico di Limes e autore del volume per Feltrinelli, Alessandro Aresu

Gli equilibri geopolitici saranno sempre più determinati dalla mole di investimenti che Stati Uniti e Cina faranno sullo sviluppo dell’intelligenza artificiale. O meglio, su tutta la filiera che ne permette la capacità funzionale. Alessandro Aresu, consigliere scientifico di Limes, ha da poco consegnato alle stampe – per Feltrinelli – Geopolitica dell’intelligenza artificiale (in uscita nelle librerie il 22 ottobre). Un libro a metà tra storia, filosofia ed economia. Un punto di vista originale attorno al dibattito su funzioni e ruoli dell’intelligenza artificiale, e delle aziende al centro dei suoi sviluppi contemporanei, tra cui Nvidia. Siamo partiti da qui, con l’autore, per capire anche le dinamiche che hanno condotto all’imponente fuga di talenti che si è registrata ultimamente da OpenAI.

Partiamo dal nodo geopolitico. In che cosa si misurerà il posizionamento di Cina e Stati Uniti sul settore?

Fondamentale sarà “monitorare” gli investimenti dei due Paesi sull’intelligenza artificiale in senso allargato. Tra data center, infrastrutture materiali e immateriali, comparto dei semiconduttori, della chimica e dell’infrastruttura energetica senza la quale non potrebbe esistere l’intelligenza artificiale, che non è qualcosa di etereo. Anche la vicenda OpenAI è abbastanza indicativa del rafforzamento del ruolo delle imprese americane nel comparto.

Gli altri player internazionali come si muovono in questa competizione?

Dipende dalle circostanze e comunque di fatto i principali attori restano sempre Usa e Cina. L’esempio dell’azienda G42 negli Emirati Arabi Uniti è significativa. È stata attenzionata da Washington per i suoi rapporti con il Dragone. Poi, grazie a un investimento poderoso di Microsoft anche in termini relazionali, si è riallineata agli Usa. E questo è un esempio di come alcuni Paesi si muovano su crinali ambigui e poi si trovano a dover “scegliere”. Un altro esempio è quello di vari attori europei acquisiti o partecipati da grandi aziende degli Usa, da Silo (Finlandia) a Mistral (Francia).

Arriviamo al caso di OpenAI. Cosa sta accadendo?

La storia della società, creata da Elon Musk in opposizione al primato di Google dopo l’acquisizione di DeepMind dieci anni fa, è abbastanza nota. La svolta commerciale arriva nel 2022 col lancio di ChatGPT. A fronte di questo exploit diventa una start-up fra le più significative in termini di valore e ha in corso un grande round di investimenti. Il nodo sta nella tipologia di azienda che è diventata e negli investimenti che deve sostenere in un ambiente sempre più competitivo: risorse incompatibili con l’ottica di una no profit. Ma, in realtà, OpenAI non è gruppetto di persone che stanno a San Francisco, ma è qualcosa di molto più grande che dipende dai data center di Microsoft che, di fatto, rappresentano la vita dell’impresa, come ha detto pubblicamente lo stesso ceo di Microsoft, Satya Nadella. E che richiedono capitali immensi per essere sostenuti.

C’è però, in questa vicenda, anche una componente “umana”. Come si spiega questa fuga di talenti da OpenAI?

Parlare di no profit è un’ipocrisia che serve proprio per attrarre talenti. Ma in un ambiente competitivo, i ricercatori si muovono: qualcosa che è già capitato a Google e DeepMind, ma anche con la creazione di Anthropic proprio con una fuga da OpenAI. I ricercatori entrando in queste realtà vivono di fatto un contesto che pone limiti radicali al loro eventuale “ideale”. D’altra parte, le aziende hanno come scopo il fatturato e il profitto e l’hype sull’intelligenza artificiale non cambia questo crudo fatto. La sostenibilità economica ha prezzi altissimi e, inevitabilmente, non si può stare sul mercato senza l’apporto delle Big Tech. A meno che non si cambino radicalmente nel breve termine le regole delle infrastrutture di calcolo e dell’ecosistema dei semiconduttori: è quasi impossibile.

L’Italia che ruolo gioca nel comparto dell’Intelligenza artificiale?

Del nostro Paese colpisce sempre la qualità del capitale umano e la capacità dei ricercatori italiani in molti campi dell’IA: sulla computer vision ad esempio. Ci sono stati molti italiani che hanno svolto un ruolo di primissimo piano in questo ambito: lo scrive anche una grande scienziata, Fei-Fei Li, nella sua autobiografia “Tutti i mondi che vedo”. Più in generale, però, c’è un problema di respiro europeo.

A cosa fa riferimento?

È messo ben in evidenza anche nell’importante rapporto di Mario Draghi sulla competitività europea, con dati molto precisi. In sintesi brutale, l’idea che sia un’Europa senza imprese rilevanti a imporre le sue regole al mondo è una stupidaggine che ha creato ormai un alone di pessimismo di cui dobbiamo sbarazzarci. Oltre ai ridotti capitali e alla scarsa attrazione di talenti rispetto agli Usa, il peso regolatorio per le imprese rappresenta un fardello che frena realmente la competitività. Anche e soprattutto in un settore come quello dell’IA, le aziende non possono passare il tempo solo a compilare moduli. Vanno e andranno altrove, perché tanto il nostro mercato rimpicciolisce perché cresciamo poco. Dovremo per forza cambiare paradigma, superare questa fissazione con le regole e – suggerisco – cominciare dalla netta riduzione e correzione delle norme che colpiscono un settore fondamentale dove l’Europa ha ancora primati: la chimica.



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