L’iniziativa di Kyiv di attaccare la regione di Kursk è stata una vittoria politica e psicologica, peraltro in via di attenuazione non tanto per gli sforzi di Putin di minimizzare il successo ucraino né per i massicci bombardamenti delle infrastrutture e delle città ucraine, quanto per l’avanzata delle forze russe nel Donbas. Il punto sulla guerra in Ucraina del generale Carlo Jean
Per la Russia, una vittoria in Ucraina non è esistenziale come sarebbe una sconfitta per l’Ucraina. Un insuccesso non metterebbe in pericolo la Federazione, ma solo il regime di Putin. La paventata possibilità di frammentazione dello Stato russo mi sembra improbabile. Certamente, la Russia ancora oggi vuole tornare a essere una grande potenza, protagonista di un ordine mondiale post-americano. La maggioranza dell’opinione pubblica sostiene Putin e vuole la vittoria sull’Ucraina. Ma si tratta di un’illusione. Anche il successo più completo dell’“operazione militare speciale” e l’annessione dell’Ucraina alla Russia, non potranno ridare a Mosca lo status di grande potenza globale. Rimarrà un “petro-Stato”, beninteso con un arsenale nucleare enorme, ma politicamente e commercialmente sempre più irrilevante, anche perché la dissuasione strategica – basata sulla Mad – esistente nella guerra fredda rimane sempre in funzione. Ha un’economia troppo piccola ed è tecnologicamente arretrata, eccetto in taluni settori quali quelli spaziale e elettronucleare. Rischia di divenire una colonia cinese. Oggi lo è già economicamente. La Russia è importante per la Cina non solo per le risorse naturali – che Pechino potrebbe però reperire altrove – ma forse ancor più per la sua potenza nucleare, che equilibra almeno indirettamente la superiorità Usa di first strike. Tale importanza sta però attenuandosi con il rapido sviluppo delle capacità nucleari di Pechino.
Mosca ha visto diminuire in Ucraina la credibilità delle sue FF.AA. e della sua Intelligence. L’ultimo colpo al riguardo l’ha ricevuto con la “beffa” dell’attacco ucraino a Kursk. Sarebbe interessante conoscere che cosa si siano detti Jake Sullivan, consigliere alla sicurezza nazionale di Biden, e il suo omologo cinese durante il loro recente incontro a Pechino. A parer mio, si sono fatti grasse risate.
Malgrado i loro successi nel Donbas, specie nell’area di Pokrovsk, Mosca ha dimostrato la sua incapacità di battere l’Ucraina al punto tale da conseguire gli obiettivi fissati da Putin per l’“operazione militare speciale”: installare a Kyiv un governo “fantoccio”; de-nazificare e “rieducare” gli ucraini; smilitarizzare il Paese e neutralizzarlo nel senso di escludere ogni garanzia occidentale su quanto resterebbe eventualmente dell’Ucraina. Ormai le maggiori probabilità russe di successo non dipendono tanto da una vittoria sul campo, quanto dall’eventuale fine del sostegno Usa in caso di vittoria di Trump alle presidenziali americane di novembre. A parer mio, il Cremlino si illude.
Trump non potrà abbandonare l’Ucraina senza compromettere la posizione globale degli Usa. Si continuerà a combattere, non tanto perché sia in gioco la sopravvivenza della Russia – come lo è quella dell’Ucraina, ma perché il potere di Putin non può più permettersi molti compromessi, specie dopo la “beffa” di Kursk.
Insomma, i “giochi” in Ucraina sono ancora aperti. Lo ha ben capito – secondo il Carnegie Endowment for International Peace – quel “furbacchione” di Erdogan che, dopo aver intascato dal Cremlino 40 miliardi di $ di prestiti e dilazione di pagamenti di debiti prima delle elezioni di marzo e sostegno per l’ammissione al Brics, ha ripreso la fornitura di armi all’Ucraina, approvato l’ingresso della Svezia nella Nato, comprato cacciabombardieri americani e non russi e, ultimamente, aderito al regime finanziario sanzionatorio nei confronti di Mosca. Ha approfittato del fatto che la Russia ha bisogno della Turchia. Putin si è limitato a caute proteste nella grande riunione di San Pietroburgo e in quella della Sco ad Astana, applaudendo all’appello di Erdogan per una “pace giusta” (ma “giusta” per chi?) in Ucraina e promettendo di costruirgli una seconda centrale nucleare a prezzo di favore.
L’iniziativa di Kyiv di attaccare la regione di Kursk è stata una vittoria politica e psicologica, peraltro in via di attenuazione non tanto per gli sforzi di Putin di minimizzare il successo ucraino né per i massicci bombardamenti delle infrastrutture e delle città ucraine, quanto per l’avanzata delle forze russe nel Donbas. Al governo di Kyiv è stato rimproverato di non essere riuscito a trasformare in strategico e permanente il successo politico e psicologico – per sua natura a breve termine -, non avendo provocato un alleggerimento dell’offensiva russa nel Donbas e costretto Mosca a trasferire ingenti forze dal Donbas alla regione di Kursk, che – a differenza del primo – dovrà essere prima o poi abbandonata.
Le perdite umane e materiali continuano ad essere elevate per entrambe le parti. Pesano maggiormente su Kyiv, data la sua inferiorità complessiva. Le città e le infrastrutture ucraine hanno subito gravi danni. La volontà di combattere degli ucraini rimane però elevata. La crisi degli effettivi è forse meno drammatica di quanto taluni affermino. L’età della leva è stata ridotta solo da 27 a 25 anni. Avrebbe potuto esserlo a 18, rendendo disponibile ben più del mezzo milione di soldati chiesto dai vertici militari ucraini.
I russi non hanno però sfruttato al massimo la loro superiorità quantitativa, aumentata dai ritardi con cui il Congresso Usa ha approvato l’invio di nuovi aiuti militari. Ora che essi stanno arrivando e che ne è stato permesso l’impiego anche sul territorio russo, le forze del Cremlino hanno subito manifestato segni di difficoltà, pur continuando lentamente ad avanzare sul fronte del Donbas.
L’offensiva nella regione di Kharkiv si è bloccata. Desta stupore il fatto che – a differenza di quanto poi avvenuto a Kursk – non abbia travolto le deboli difese ucraine del settore. Invece l’avanzata più a Sud si è accelerata. I critici di Zelensky ne attribuiscono la responsabilità alla sottrazione di forze per l’attacco di sorpresa a Kursk, che ha sottratto alla difesa del Donbas occidentale da 10 a 15.000 dei migliori soldati. Molti affermano che l’attacco sia stato un azzardo, fondato su semplici speranze frustrate anche dalla decisione di Putin di mantenere a Sud il centro di gravitazione delle proprie forze.
A tali critiche Zelensky ha risposto affermando che le difficoltà ucraine derivano sia dalla lentezza delle forniture occidentali di armi, specie di quelle a più lunga gittata, sia dalle limitazioni poste all’impiego in profondità sul territorio russo di quelle date a Kyiv. Ha sostenuto che tali limitazioni obbligano l’Ucraina a combattere con una mano legata e che l’Occidente esagera il rischio di un’escalation, consentendo all’Ucraina solo di resistere ma impedendole di vincere, cioè di costringere Mosca a seri negoziati, non subordinati, come pretende il “Piano di Pace” di Putin alla preventiva resa dei Kyiv. Implicitamente Zelensky affermava che non accettava di “combattere la Russia fino all’ultimo ucraino”, che le minacce di Mosca erano semplici “bluff” e che le armi nucleari russe sono semplici “tigri di carta”. Tale interpretazione è suffragata dal fatto che l’attacco a Kursk sarebbe avvenuto senza informarne gli Usa, ma mettendoli di fronte al fatto compiuto.
Nelle affermazioni di Zelensky c’è del vero. Ma esse non sono suffragabili da una valutazione di quanto la cancellazione delle limitazioni ancora esistenti influirebbe sull’esito del conflitto. Certamente aumenterebbero le perdite russe, fattore essenziale per indurre Mosca a trattare. Ma non modificherebbe – soprattutto se continuasse la guerra d’attrito in cui i numeri contano maggiormente – la situazione generale dei rapporti di forza favorevoli ai russi. Non consentirebbero a Kyiv la riconquista dei territori perduti, ormai protetti da robuste fortificazioni. In ogni caso, la guerra continuerà. Kyiv cercherà di mantenere le posizioni conquistate nel Kursk almeno fino alle presidenziali americane. Sarebbero un bargaining chip per Trump o per la Harris.