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La strategia Usa per l’Indiano serve all’Italia nell’IndoMed. Ecco perché

Dal NatInt una lettura fondamentale per aiutare a definire il contorno del dibattito strategico che caratterizza la concettualizzazione dell’Indo Mediterraneo. Che passa anche dall’approccio americano all’Oceano Indiano

L’Indo Mediterraneo (o IndoMed) è un ambiente geostrategico in cui gli interessi di Italia e Stati Uniti collimano. Per Roma, si tratta del prolungamento ovvio della proiezione nel Mediterraneo allargato — classica della dottrina italiana — verso oriente, ossia l’Indo Pacifico. Per Washington è una regione cruciale per il contenimento cinese, sia in termini economico-commerciali, sia in casi di un eventuale conflitto mondiale.

L’Indo Mediterraneo include la più grande demografia globale, l’India, con la popolazione in più rapida ascesa, l’Africa. È il tratto di mare che con il corridoio Suez-Bab el Mandeb unisce l’Europa all’Asia; e le nuove connettività come Imec aumenteranno questi collegamenti. L’Indo Mediterraneo racchiude anche il tratto occidentale dell’Oceano Indiano, che a ovest della Dorsale di Carlsberg segna il Mare Arabico e il Golfo di Aden, il Canale del Mozambico e le coste del Sudafrica. L’Indiano è l’elemento geomorfologico, dunque geopolitico dominante della regione.

Oltre il 60% del commercio marittimo mondiale transita attraverso l’Oceano Indiano, tra cui un terzo del carico di container mondiale e due terzi delle spedizioni di petrolio del mondo. Ogni giorno, oltre 50 milioni di barili di petrolio passano attraverso lo stretto di Malacca, Hormuz e Bab el Mandeb. L’Oceano Indiano trasmette il commercio della Cina verso l’Asia meridionale, il Medio Oriente, l’Europa e l’Africa, compreso l’80% delle sue importazioni di petrolio, che rappresentano più della metà del suo consumo interno totale.

La grande regione oceanica è un mondo di mezzo che collega il mondo euro-atlantico a quello dell’Indo Pacifico. “Il nostro chiaro scopo nell’Oceano Indiano è quello di affermare, in stretta consonanza con gli alleati, vantaggi operativi nel teatro negando lo stesso all’avversario”, scrivono Kaush Ahra e James Himberger sul National Interest. “Ciò richiede una strategia su due fronti per posizionare in primo luogo le forze tattiche e strategiche attraverso le aree geografiche critiche dell’Oceano Indiano e in secondo luogo aumentare le capacità di alleati e partner like minded”.

L’analisi è un ottimo spunto per ribadire come anche per un Paese mediterraneo come l’Italia, parte del destino delle relazioni internazionali passi per l’Oceano Indiano e in particolare per la porzione continua dell’Indo Mediterraneo. Per tale ragione quelli che scrivono i due autori è utile per ricordare l’importanza di progetti come Imec (il corridoio commerciale per unire India, Europa e Medio Oriente lanciato a latere del G20 dello scorso anno), di problematiche come la destabilizzazione del Mar Rosso prodotta dagli Houthi, di necessità come la protezione della sicurezza marittima e della libertà di navigazione (che torna centrale con gli Houthi, ma anche con rigurgiti legati alla pirateria), nonché del controllo securitario della aree interne in cui gruppi armati e destabilizzazione di vario genere affliggono i Paesi dell’area.

In definitiva, secondo la prospettiva washingtonians dei due autori del NatInt, questo impone agli Usa di costruire una strategia regionale per l’Indiano, ovviamente partendo dall’angolo militare: “Il Pentagono dovrebbe intraprendere una revisione approfondita e una pianificazione degli scenari per determinare le disposizioni ottimali e la presenza di forze in tutto l’Oceano Indiano”. E la stabilità indo-mediterranea è parte cruciale di tale strategia.

In effetti, gli Stati Uniti hanno sempre dato priorità agli oceani Atlantico e Pacifico rispetto all’Indiano, dove però si sta giocando sempre di più dell’importante partita Est-Ovest. Stretto di Malacca, Golfo del Bengala, Mar Arabico e stretti del Madagascar, Bab el Mandeb e Hormuz, sono chokepoint determinanti. Oltre alle basi a Gibuti, Qatar, Bahrain e Diego Garcia e al supporto logistico a Darwin, Singapore, Perth e intorno a Chennai, e ancor le isole Andamane, le Cocos e altre isole al largo delle coste del Mozambico e del Madagascar sono punti di appoggio strategici per l’ordine geoeconomico che si sta ridefinendo, tanto quanto in caso di conflitti (con la Cina, detto con chiarezza).

Per fare di più nell’Indiano, gli Usa dovrebbero fare maggiore affidamento sulle capacità dei partner, impegnarsi in partenariati strategici con nazioni chiave con interessi nazionali condivisi nella regione, specificano Arha e Himberger. Per esempio sfruttando l’ascesa dell’Indja, che sta dimostrando tutte le sue volontà (e capacità) di interconnessione verso il Medio Oriente innanzitutto, ma anche verso la costa orientale dell’Africa. Contemporaneamente, Paesi europei come l’Italia hanno tutto l’interesse a sviluppare le loro proiezioni in partnership con gli Usa; mentre altro come Francia e Regno Unito sono già piazzati in diverse isole strategiche della regione. Inoltre, altri alleati come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti — attori centrali nella convergenza economico-commerciale tra India, Europa e Medio Oriente — sono ansioso di diventare player geostrategici nella regione.

In questo, il pilastro fondamentale di tali partnership dovrebbe essere “costruire le capacità di difesa e guardia costiera di stretti partner americani, sforzandosi al contempo di ottenere un’intelligence praticabile e un’interoperabilità operativa con loro”. Elementi che tra l’altro caratterizzano anche il “latticework approach” con cui gli Stati Uniti operano in generale nell’Indo Pacifico. Dalla pesca illegale al cambiamento climatico, dalle influenze di attori rivali al controllo securitario, fino ai traffici illegali di vario genere e alla sicurezza energetica, sono tanti gli elementi attorno a cui le varie partnership possono muoversi, nell’ambito di quella che viene definita “comprehensive U.S. Indian Ocean strategy”.

“I preparativi americani per prevalere contro la Repubblica popolare cinese sono incompleti senza una strategia per l’Oceano Indiano”, scrivono i due esperti sul NatInt. “Una strategia completa e modulata per l’Oceano Indiano non solo rafforzerà la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, ma fungerà anche da moltiplicatore di forza nel rafforzare le alleanze e le partnership critiche in tutta la regione indo-pacifica”, aggiungono, suggerendo che data la crescente importanza e urgenza degli interessi americani nell’Indiano, “il Congresso dovrebbe dirigere il ramo esecutivo a redigere una strategia sull’Oceano Indiano il più rapidamente possibile”.

In definitiva, quello del NatInt è una lettura fondamentale per aiutare a definire il contorno del dibattito strategico che caratterizza la concettualizzazione dell’Indo Mediterraneo. Fondamentale per l’Italia — che non vuole perdere centralità nel Mediterraneo allargato mentre intende proiettarsi verso l’Indo Pacifico — rafforzare certe consapevolezze. Per arrivare all’Asia, serve passare per l’Indiano dal corridoio indo-mediterraneo.

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