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Business e diplomazia, il tentativo italiano in Libia

L’Italia prova ad aiutare la stabilizzazione libica anche con il business. Per Roma, la necessità è doppia: da un lato c’è la sicurezza nazionale da fornire alle aziende operative nel Paese, dall’altro un tentativo politico-diplomatico di ricostruire le istituzioni, da Tripoli a Bengasi, anche per evitare le attività destabilizzanti di attori ostili

La scenografia che avvolge il Business Forum Italia-Libia non è particolarmente nuova: il Paese è ancora diviso, caotico, dominato da milizie che controllano porzioni di territorio e, di conseguenza, dominano buona parte del business. Il principale dei problemi è ancora, dopo oltre un decennio dalla rivoluzione che portò alla morte di Gheddafi, la stabilità. A cascata, si lega una condizione generale di mancanza di sicurezza, uno stato sociale in costante depauperamento, un’economia dominata dal petrolio e soggetta ai ricatti delle milizie e impoverita sul piano strutturale e nelle sue articolazioni.

Anche per queste, l’iniziativa del Business Forum Italia-Libia può essere tanto lodevole quanto necessaria per supportare le aziende italiane che operano in un contesto di insicurezza diffusa, dominato da attori locali senza scrupoli e disequilibrati. Questo supporto può rappresentare un vettore per migliorare la situazione economica e sociale del Paese.

Può oggettivamente apparire complicato pensare al business in certe condizioni, eppure la ripresa economica può essere una spinta ai faticosissimi processi di stabilizzazione che l’Onu sta portando avanti, affiancato da Paesi come l’Italia, appunto. La scommessa del governo di Giorgia Meloni è in questo, e per tale ragione la presidente del Consiglio ha scelto di partecipare al Business Forum oggi, alle 12, a Tripoli.

Da fare ce n’è, perché nel frattempo si sta procedendo anche alla ricostruzione, legata ai disastri che oltre un decennio di guerra civile ha prodotto. Certo, la consapevolezza è che il caos possa degenerare rapidamente, di nuovo. D’altronde non troppe settimane fa si è arrivati un’altra volta al limite dello scontro militare, con movimenti di truppe che hanno accompagnato uno scontro istituzionale tra il governo tripolino, guidato da Abdelhamid Dabaiba, e la Banca Centrale libica. Dabaiba voleva infatti sostituire lo storico governatore, Sadiq el Kabir, che però si opponeva alle direttive perché: primo, l’operazione doveva essere diretta non dal governo ma dal Consiglio Presidenziale, organo istituzionale creato in ambito onusiano in attesa del voto per fantomatiche elezioni presidenziali; secondo, il mandato di Dabaiba è scaduto, perché ha fallito la missione che le Nazioni Unite gli avevano affidato, ossia portare il Paese a quell’agognato voto, dopo aver riunito le forze politiche e militari presenti nel Paese e stabilizzato la situazione generale.

L’incarico onusiano scadeva nel 2021: se a settembre 2024 eravamo sul punto che ripartisse lo scontro armato perché la fazione orientale — controllata militarmente dalla famiglia miliziana-mafiosa del signore della guerra di Bengasi, Khalifa Haftar, e rappresentata da un governo non riconosciuto — ha inviato combattenti a bloccare i pozzi petroliferi in difesa di el Kabir, allora significa che Dabaiba ha fallito la propria missione. Tuttavia, si è trovata una quadra: la Banca Centrale — fondamentale per la redistribuzione dei proventi petroliferi ai due esecutivi, e alle milizie collegate — ha un nuovo governatore, deciso tramite un accordo mediato anche dall’Onu (e da Italia, Turchia, Egitto, Emirati e Qatar), che non dispiace alle forze orientali.

Tuttavia la vicenda è più che emblematica. La Libia è in mano a milizie che si muovono in modo simile ai clan mafiosi. Gli Haftar sono per esempio in una fase di assestamento degli equilibri interni della famiglia, con i figli che stanno prendendo in mano il business del padre, spalmato tra controllo dei pozzi, traffico di esseri umani e di svariate altre cose, edilizia e in generale corruzione di più generi, oltre che fornire la piattaforma logistica in Libia per gli interessi russi, che non sono tanto legati al futuro del Paese ma mirano a usarlo come punto di aggancio per attività in altre zone dell’Africa, su tutte il Sahel.

La complessità della situazione pone una sfida multilivello. Il rischio è che lo sviluppo di alcuni business possa infatti seguire processi corrotti che arricchiscono figure note e comunque non portano sviluppi del tessuto sociale — infestato appunto dalle milizie, comprese quelle che permettono a Dabaiba la sopravvivenza politica, annidate tra Tripoli e Misurata. Inoltre, potenziali azioni di disturbo di attori esterni pone tali attività sotto la lente della sicurezza nazionale. La necessità fondamentale è inoltre creare sistemi di controllo e protezione per evitare rischi alle imprese italiane, da quelle coinvolte nei grandissimi progetti — l’aeroporto internazionale di Tripoli, la gheddafiana “Autostrada della Pace” per collegare Est e Ovest, il progetto di connessione libica al cavo sottomarino “Blue Med” — fino a quelle attive in imprese minori (o subappaltate).

Il tentativo italiano è dunque frutto di contingenze, ma anche diplomaticamente coraggioso. Il processo inverso d’altronde, prima la stabilizzazione poi il business, è bloccato da oltre un decennio e la forzatura affinché il business diventi un vettore di stabilità anche per la ricostruzione sul piano istituzionale. Da segnalare che sta intanto prendendo forma la spinta per creare un nuovo governo, terzo e possibilmente terso, da far nascere già con l’intento di superare parte delle attuali divisioni, frutto anche di scontri personali tra figure al potere. L’idea, non certo una novità, sarebbe usare incanalare il lavoro del nuovo esecutivo sul solco del processo elettorale. Stavolta c’è anche una questione strategica da affrontare con urgenza e soprattutto decisione (come dice AfriCom): evitare che dal caos capitalizzi la Russia, ormai piantata in due basi aeree nell’est del Paese e incrinata, tramite l’Africa Corp (ex Wagner), anche in parte del business orientale.


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