Ankara ha provato prima con l’accordo del grano, e poi in molte altre occasioni, di farsi riconoscere ufficialmente come collegamento tra Occidente e Russia. Ma fino ad oggi non ci è riuscita
Il gran ciambelliere: Recep Tayyip Erdogan prova a farsi di nuovo super mediatore sul fronte ucraino, nella speranza di chiudere il suo ultimo mandato con un successo diplomatico. Ma deve guardarsi le spalle anche dagli strali di Benjamin Netanyahu. Allo studio un format del meeting per dare una soluzione al conflitto a Kyiv con la presenza attiva di soggetti terzi, da organizzare entro la fine del 2024: e quale miglior candidato al ruolo di arbitro se non la Turchia?
Arbitro sul Bosforo
Vasyl Bodnar, ambasciatore ucraino ad Ankara, ha detto che l’Ucraina sta perseguendo il “piano della vittoria ” del presidente Volodymyr Zelensky, mentre il presidente russo Vladimir Putin ha affermato che i colloqui di pace potranno iniziare solo se Kyiv accetterà di abbandonare vaste fasce di territorio rivendicate da Mosca e abbandonerà la sua offerta di adesione all’Alleanza atlantica. “Uno degli obiettivi più importanti di questo summit è raggiungere una pace giusta in Ucraina. Non stiamo parlando di un format in cui Ucraina e Russia si siedono una di fronte all’altra e l’Ucraina ascolta le richieste della Russia”, ha osservato durante un briefing ad Ankara.
Il luogo di quelle dichiarazioni non è evidentemente casuale, dal momento che da mesi Erdogan preme per vedersi ritagliato quello status: ci ha provato con l’accordo del grano e in molte altre occasioni al fine di vedersi riconosciuto ufficialmente come collegamento tra Occidente e Russia. Ma fino ad oggi non ci è riuscito. Della nuova possibilità si è discusso qualche giorno fa a Dubrovnik in occasione del summit Ucraina-Europa a cui ha preso parte il ministro degli esteri turco, Hakan Fidan.
Il ruolo turco
Ad oggi la Turchia indossa un abito peculiare, se non unico nel suo genere. Pur sostenendo l’integrità territoriale dell’Ucraina, da membro della Nato si è opposta alle sanzioni occidentali nei confronti della Russia. Inoltre con Mosca mantiene un fortissimo rapporto, anche economico oltre che personale tra leader, come dimostra la centrale nucleare di Akkuyu, sviluppata dalla società russa Rosatom. Ma non ci sono solo Mosca e Pechino nei pensieri di Ankara.
Il rapporto con Tel Aviv oltre ad essere sempre più teso, si caratterizza per attacchi costanti. Israele, ha più volte sostenuto il presidente, potrebbe rappresentare una minaccia alla sicurezza nazionale della Turchia. Parole che presentano conseguenze chirurgiche: quando Erdoğan definisce le operazioni di Israele a Gaza un “genocidio” non solo rafforza la sua posizione a favore della causa palestinese, ma al contempo lancia un messaggio a tutti gli alleati nel golfo e nella macro regione. “Dopo la Palestina e il Libano, la nostra patria sarà il prossimo posto su cui l’amministrazione israeliana, che agisce con l’illusione della terra promessa, poserà gli occhi”, ha detto, aggiungendo un elemento alla retorica degli ultimi 20 anni, ovvero temendo un intervento (altamente improbabile) diretto su suolo turco. Ciò si lega alle strategie di Erdogan in quel vasto fazzoletto di terre e interessi che vanno da Gibilterra alla Siria.
Non è un mistero che l’ala siriana del Pkk, Ypg, è considerata una minaccia da Erdogan, al pari della possibilità che il governo Netanyahu possa usare Ypg come grimaldello verso la stessa Turchia, in un puzzle geopolitico dove l’unica certezza al momento è la decisione di Erdogan di non peccare di immobilismo (sia su Kyiv che su Gaza).