La produzione culturale necessita di consumo, perché altrimenti per sopravvivere dipenderà sempre di più da iniziative di tipo pubblico, che tuttavia non possono raggiungere la medesima diversificazione che invece, attraverso il mercato, viene garantita. Occorre riconoscere nella produzione culturale un’industria. Il commento di Stefano Monti
Al di là delle dichiarazioni e degli scandali cui la dimensione politica ci ha abituato in questi ultimi mesi, esiste una consistente parte del nostro Paese che, nella propria vita, si impegna quotidianamente nelle attività di produzione e di diffusione di cultura.
Si tratta di un tema cui si tende a dare sempre poca rilevanza all’interno del dibattito culturale, che spesso si concentra sulla dimensione del Patrimonio, auspicandone una sempre maggiore centralità, e che tralascia invece la rilevanza, tanto culturale quanto economica, della produzione culturale contemporanea.
Questo minore interesse può trovare le proprie ragioni nell’apparente cortocircuito che esso può produrre in alcuni visioni idealizzate della cultura, perché se c’è un mondo che “produce” cultura, allora bisogna necessariamente ammettere che c’è un mondo che la cultura “la consuma”.
Non è raro infatti imbattersi in affermazioni che sostengono che la cultura “non si consuma”, che la cultura “non è un prodotto”, e altri slogan più o meno analoghi per densità intellettuale.
Eppure, al di là di quel che ci si voglia raccontare, l’offerta esiste, e resiste, soltanto se c’è un’adeguata domanda. E questo, per la cultura, vale ancora di più.
Vale ancora di più per un assunto empirico: date le nostre caratteristiche sociali, in termini aggregati, la presenza di un’offerta di cultura qualitativamente attraente e costante nel tempo può generare un incremento della domanda.
Senza entrare in labirinti accademici, la questione è in realtà piuttosto semplice: al di là delle eccezioni, generalmente non si va al Teatro dell’Opera a 13 anni. A 13 anni si va ai concerti, in discoteca, si va ai Festival di musica pop, rock. Non ci si sveglia arrabbiati per dover andare a fare il compito in classe però felici perché il week-end è vicino e finalmente ci si potrà dedicare alla visione di Monteverdi.
Bisognerà attendere, se tutto va bene, qualche anno. Nel frattempo, però, il Teatro d’Opera dovrà continuare ad esistere, altrimenti a 16-17 anni, sarà necessario spostarsi di città per vedere una rappresentazione del recitar cantando.
La questione è più complessa, ma ai fini di questa riflessione era soltanto necessario affermare la centralità di una domanda e di un consumo culturale propedeutico alla costante presenza di un’offerta che, a propria volta, può incrementare i livelli di consumo.
Ebbene, questa centralità è anche e soprattutto culturale. Perché il Patrimonio è importante. Ma lo è ancor di più la produzione contemporanea. È importante perché la produzione contemporanea ha degli impatti sulle dinamiche relazionali, cognitive, sociali, imprenditoriali. Perché la produzione contemporanea adotta (o dovrebbe farlo) stili e linguaggi che sono rappresentativi del nostro tempo, grazie ai quali riesce ad avviare una riflessione consapevole, senza estrema erudizione.
Senza studio, si può comprendere Banksy, non Velazquez o De Chirico. Le atmosfere dei Kiasmos sono senza dubbio più direttamente percepibili ed interpretabili di Ligeti. Palahniuk, Baricco o Benni non sono Dante, ma l’universo simbolico cui attingono, ancor prima della lingua, li rende di certo più vicini a chi vuole leggere un bel libro.
La produzione culturale necessita di consumo, perché altrimenti per sopravvivere dipende necessariamente da iniziative di tipo pubblico, che tuttavia non possono raggiungere la medesima diversificazione che invece, attraverso il mercato, viene garantita.
Per queste ragioni, una contrazione dei consumi culturali, deve necessariamente sollevare attenzione, pubblica e privata.
I dati recentemente pubblicati da Impresa Cultura Italia mostrano una fotografia alquanto interessante da questo punto di vista, andando ad analizzare quale fosse la quota parte dei partecipanti all’indagine ad aver speso del denaro per consumare cultura (o svolgere attività culturali) nel mese antecedente.
Rispetto al settembre 2023, si scopre che una quota stabile (pari al 4%) è andata a festival culturali, e una quota stabile (7%) ha speso del denaro per assistere a spettacoli all’aperto.
Per il resto delle attività, invece, si sono registrati tutti differenziali negati: è il caso del teatro (9% contro l’11% dell’anno precedente), dei concerti (13% contro 16%), dell’ascolto di musica (7% contro il 10%) del cinema (24% contro il 29%), dei quotidiani (13% contro il 15%) dell’audiovisivo da canali a pagamento (film, telefilm, programmi), che sono passati dal 35% al 31%.
L’unica eccezione al rialzo registrata è stata “leggere riviste o fumetti”, passata dal 14% del 2023 al 15% del 2024.
Dati che non solo puntano l’attenzione su un calo generalizzato dei consumi, ma che richiedono anche una riflessione sul livello di consumo culturale, perché la quota più elevata di consumo (con un differenziale importante rispetto a tutto il resto) riguarda la visione di contenuti audiovisivi a pagamento (programmi, film e telefilm). E questo lo fa meno di un terzo della popolazione.
A leggere è meno di un quinto dei rispondenti, mentre legge quotidiani meno di un sesto. Meno di un quarto dei rispondenti è stato al cinema. Poco più di una persona su dieci ha visto un concerto.
Si tratta di cifre molto critiche che solo in parte possono realmente essere alleviate dalla constatazione che quella minoranza che consuma cultura spende nel tempo sempre di più.
Una spesa che, in termini di percezione, dal 2020 al 2024 è quasi duplicata (50,9€ contro gli attuali 94,6).
Si tratta di un processo che è ormai in essere da molto tempo, che poggia su un andamento naturale. È ad esempio naturale che chi apprezzi la musica dal vivo tenda a frequentare concerti. E che quindi tenda a spendere una quota sempre maggiore man mano che si appassiona, sia perché inizia a guardare un numero maggiore di concerti, sia perché il prezzo dei biglietti, dal 2020 ad oggi, è in ogni caso aumentato.
Vedere incrementata la spesa di chi effettivamente consuma cultura, però, è solo una magra consolazione. In primo luogo perché sotto il profilo economico, quella che potremmo descrivere come estensione orizzontale della domanda (incremento del numero di persone che spendono per beni e attività culturali) ha un valore più elevato rispetto all’estensione verticale (incremento della spesa media di chi già consuma cultura). In secondo luogo perché quella che si rischia di formare è una società profondamente divisa sotto il profilo degli interessi culturali.
Sempre tenendo conto dei dati Impresa Cultura Italia, il livello di disinteresse dichiarato nei riguardi di alcune attività culturali è significativo. Ad esempio, questi sono le categorie di prodotto o attività culturali nei confronti delle quali la maggior parte dei rispondenti ha dichiarato di non nutrire interesse: spettacoli teatrali di prosa (il 3% è appassionato e dichiara di andar spesso; il 55% dichiara di non essere interessato); festival scientifici (2% contro 57%); cerimonie e rappresentazioni storiche (laiche e religiose) (4% contro 58%); concerti di musica classica (3% contro 56%); rassegne e festival cinematografici (4% contro il 57%); Festival letterali (3% contro il 61%); rassegne/festival teatrali (2% contro il 55%) opera (3% contro il 65%) e balletto (3% contro il 67%).
La cruda realtà del nostro consumo culturale viene ad essere ancora più esplicita se si fa il confronto tra coloro che si dichiarano “appassionati o in ogni caso frequentatori” e coloro che invece si dichiarano “interessati ma non frequentanti, o disinteressati”.
Ebbene in nessun caso i primi sono la maggioranza. Anzi. Fatta eccezione della sola componente “Musei permanenti e siti archeologici”, che registra il 32% di frequentanti (7% Sono un appassionato e vado spesso, 25% mi interessano e li frequento), contro il 28% che si dichiara disinteressato, in tutte le altre categorie, il solo numero di coloro che si dichiarano disinteressati (e non interessati ma non frequentanti) è sempre più alto dei frequentanti. Mostre temporanee d’arte? Il 43% non è interessato. Il 21% le frequenta. I concerti di musica leggera? Il 39% non è interessato, il 21% li frequenta.
Certo, le domeniche al museo sono importanti. Ed è importante il turismo, è importante l’indotto. Sono importanti tutte le attività che sono state svolte negli ultimi anni.
Ma è ancora più importante riconoscere nella produzione culturale un’industria. E riconoscere in chi produce cultura un esponente di un determinato comparto industriale.
Se vogliamo davvero far crescere il consumo di cultura, dobbiamo adottare quantomeno politiche industriali, e auspicabilmente politiche industriali adeguate. E prima o poi bisognerà seriamente chiedersi se tali politiche industriali possano essere realmente prodotte o quantomeno immaginate da un Ministero che, negli anni, ha prodotto più riforme organizzative interne che idee.