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L’appello urgente di Mitri ai cristiani libanesi. L’analisi di Cristiano

libano

Quello che definisce un Paese è la solidarietà tra i suoi concittadini. Un buon leader cristiano dovrebbe dire questo, ed è quello che ha detto l’ex ministro libanese, cristiano, accademico di chiara fama, Tarek Mitri. Di qui ha fatto discendere la necessità di superare tutte le dispute politiche, nel momento in cui il Paese si trova solcato da una colonna umana di oltre un milione di profughi. L’analisi di Riccardo Cristiano

Per chi oggi voglia dirsi libanese, la premessa logica è stabilire che il Libano esiste. Di qui deriva la conseguente affermazione che quella in atto è una guerra contro il Libano. Se ciò che definisce l’esistenza della famiglia umana è la fratellanza tra gli uomini, quello che definisce un Paese è la solidarietà tra i suoi concittadini. Un buon leader cristiano dovrebbe dire questo e questo è quello che ha detto l’ex ministro libanese, cristiano, accademico di chiara fama, Tarek Mitri. Di qui ha fatto discendere la necessità di superare tutte le dispute politiche, nel momento in cui il Paese si trova solcato da una colonna umana di oltre un milione di profughi, in fuga dalle zone rese invivibili del Paese. Il Libano, Paese poco più grande delle Marche, ne ospita quasi cinque milioni in tutto.

Definire così un approccio cristiano alla politica in questa fase drammatica del Paese vuol dire dare spazio alla diplomazia. Credere cioè che unirsi nella richiesta di una piena applicazione della risoluzione 1701 dell’Onu, che richiede alle parti di definire i propri confini e di ritirare ogni miliziano – quindi anche di Hezbollah – a 30 chilometri dal confine con Israele, consenta di chiedere al mondo e a Israele l’immediato cessate il fuoco.

Ma questo oltre a Tarek Mitri stenta a sentirsi con chiarezza dal resto della leadership libanese. Piuttosto, da parte cristiana, si è preferito eccepire sulla riunione tra il presidente della Camera, Nabih Berri, il presidente del consiglio ministri (in carica per il disbrigo degli affari correnti), Najib Miqati e il leader druso Walid Joumblatt. Perché non c’era un cristiano. Ma un cristiano non c’era perché i cristiani sono divisi; era stato cercato, ma nessuno avrebbe potuto rappresentarli tutti. Risentimento a cui si è messo riparo mandando Miqati dal patriarca maronita a convenire sull’urgenza di nominare il presidente: il patriarca è certamente uno e lo riconoscono tale tutti.

Quell’incontro è stato solo parzialmente utile, ma in parte non lo è stato. La parte carente è che il Libano non ha bisogno di parlare con tre o quattro voci comunitarie, ma con la voce delle sue istituzioni. E quelle non ci sono, le massime magistrature sono vacanti da anni, a cominciare dalla presidenza della Repubblica. Questo è il problema. E chi ha individuato la necessità di ricreare lo Stato nei suoi ruoli decisionali istituzionali perché la sua voce coinvolga ed esprima tutti è stato non un cristiano, ma un musulmano, l’ex primo ministro Fouad Siniora.

L’invasione di terra del Libano, avvertono ex generali in pensione che scrivono sui giornali libanesi, non è ancora cominciata. Quella avverrà con i carri armati, quando il terreno sarà ritenuto “preparato”. E proverrà dalla Valle della Beqaa, dove ci sono anche villaggi sunniti, cristiani e drusi, e quindi lì l’esercito israeliano troverà meno resistenza. Sarà la riprova che la questione coinvolge tutti? I morti di questa settimana già sono il doppio di quelli della guerra del 2006, e tutti dicono che ci sono molti altri cadaveri non recuperati, sotto le macerie.

L’appello che ha lanciato Tarek Mitri si condensa istituzionalmente in quanto detto da Fouad Siniora. Deve esistere lo Stato per parlare a nome di tutti i cittadini e dire a tutti di esserlo. Altrimenti non sarà così. Con i danni alle infrastrutture e ai campi coltivati, il Libano del sud quando potrà tornare ad essere abitato? Non è questo un danno a tutto il Paese? Non richiede che rispondano a nome di tutti le rinnovate istituzioni?

Ma la carica di Presidente della Repubblica, che spetta ai cristiani maroniti e va eletto dal Parlamento, è vacante da due anni, e tutto il Libano sa che c’è chi ha tentato di farsi eleggere con i voti di Hezbollah, come qualcuno con quelli dei suoi nemici. Oggi servirebbe un’altra visione: chi vuole farsi eleggere con i voti di tutti i deputati che antepongono gli interessi del Paese a quelli della propria fazione, e del proprio clan.

Ma tra i cristiani si sente il riflesso, o il riflusso, dell’identitarsimo, la cultura del ghetto, del cantone cristiano che dal Monte Libano si astrae dal resto del Paese. Magari nella speranza che venga risparmiato, adesso, dal fuoco che divampa altrove. Questo nei piccoli centri montani già si percepirebbe, dicono alcuni, almeno per via della paura, o forse per qualcosa di più. Ma questa sarebbe la fine del Libano, il solo modello di Stato cosmopolita, un’alternativa che è stata fortissima per decenni, sognata da tanti in tutti il mondo arabo. Stampa libera, impresa fiorente, progresso, libertà d’espressione: questo ha reso compatibile con tutte le sue fedi lo Stato cosmopolita libanese.

La sfiducia nell’altro ha sempre albergato nei cuori di molti, come il pregiudizio. Ma il Libano affluente aveva saputo superare questa sfiducia soprattutto grazie alla forza di Beirut, motore economico vincente rispetto all’arretratezza tribale della montagna.

Tornare in montagna, chiudersi lì, non provare solidarietà con l’altro, magari temerlo, questo è il rischio che non seguire la strada indicata da Mitri pone a tutti libanesi, ed è anche la sfida per i cristiani, artefici della base culturale che ha costruito le premesse di questo Stato nell’Ottocento.

Ma la politica traccheggia, a una settimana dalla morte di Nasrallah il Parlamento ancora non viene convocato. Qualche esigenza può esserci, c’è la tormenta, ma nessuno obietta che il tempo è scaduto, o quasi. I generali che avvisano che l’invasione non è ancora cominciata dovrebbero far tremare le vene dei polsi ma anche dare un po’ di conforto, “se ci sbrigassimo il peggio potrebbe essere scongiurato”.

Ma per farlo i cristiani in particolar modo dovrebbero mettere da parte i particolarismi, gli accordi di potere, i negoziati, i personalismi, e chiedere di scegliere liberamente, come si ritiene più giusto, un nome; ma subito. Ora il Presidente della Camera chiede di eccepire alle regole costituzionali e votare, sì, ma sempre con la maggioranza dei due terzi, richiesta invece solo ai primi scrutini per ottenere il più vasto consenso nazionale. Può funzionare? Il rischio è chiaro: qualcuno, per calcolo, potrebbe accettare: qualcuno no. E il tempo passerebbe. Cosa resterebbe? La spiraglio diplomatico è piccolo, ma col tempo si restringerà. E l’illusione di chiudersi nel ghetto non salverebbe nessuno.



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