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L’ideologia di Hamas sopravviverà all’eliminazione di Sinwar?

La morte di Sinwar apre a diversi scenari, che impongono di ragionare sul fronte regionale, sugli effetti per l’Iran e per l’Asse della Resistenza, e in generale a ripensare il conflitto di Gaza. C’è la possibilità che nuovi leader aprano a negoziati, con Netanyahu che potrebbe usare l’eliminazione del leader di Hamas come “victory picture”, ma c’è anche il rischio che l’ideologia diventi sempre più radicale

“Anche se questa non è la fine della guerra a Gaza, è l’inizio della fine”: è la terza frase detta dal primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, commentando l’uccisione del capo dei capi di Hamas, Yahya Sinwar. Un simbolo, combattente che ha dedicato la sua intera vita alla distruzione dello Stato di Israele, sia nei fatti che nella narrazione, quella con cui ha indottrinato centinaia di giovani palestinesi diventati poi miliziani. È morto combattendo — dunque lasciando spazio alla continuazione del suo simbolismo, del suo mito velenoso, come martire eroico da usare per il proselitismo futuro. Perché Hamas è anche questo: come diceva la think tanker emiratina Ebtesam Al Ketbi, durante un recente evento ospitato dalla Fondazione Med-Or, “Hamas è un’ideologia: si possono uccidere le persone, ma non si possono uccidere le ideologie”.

Sinwar è stato scovato (per coincidenza) mentre si muoveva, protetto da altri due miliziani, in una zona di battaglia di Rafah. Le forze armate israeliane hanno aperto il fuoco contro i tre, che si sono rifugiati in due edifici differenti. Sinwar era solo quando l’appartamento in cui si era nascosto è stato centrato da un carro armato: ha colpito con un bastone il drone inviato per verificare gli effetti dell’attacco. È morto con diverse armi accanto a sé, tra cui una pistola: la leggenda vuole che l’arma personale di Sinwar fosse la Glock-19 sottratta dal corpo da un operatore dello Sayeret Matkal ucciso nel 2018 quando la sua unità era finita in un’imboscata di Hamas mentre cercava di infiltrarsi a Gaza.

Simboli, si diceva. Come il documento di identità di un funzionario dell’Unrwa trovato vicino al corpo del capo-miliziano. Il commissario generale dell’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, Philippe Lazzarini, ha smentito su X le connessioni. Il membro dello staff indicato nel documento, un egiziano, è vivo e si trova in Egitto: è possibile che fosse una copia, e che Sinwar usasse quella identità per muoversi dentro e fuori dalla Striscia, probabilmente tramite il passaggio di Rafah — la porta usata per inviare gli aiuti umanitari nell’enclave palestinese, via Onu, argomento in questi giorni di una delle tante discussioni tra Israele e Stati Uniti, con questi ultimi che intimavano agli alleati di aumentare gli approvvigionamenti e gli israeliani che insistono di limitare i passaggio per il rischio che il collegamento possa essere sfruttato da Hamas.

Il fronte regionale

Simboli, ancora. In un momento in cui lo Stato ebraico combatte la presenza dell’Onu in Libano, dopo anni di denunce (così come contro Unrwa), quel documento è una storia nella storia. Così come lo è il Libano, appunto, con Hezbollah — altrettanto coinvolta nello scontro militare con Israele sin dal giorno dopo il massacro organizzato da Sinwar il 7 ottobre 2023, quando è iniziata la nuova stagione di guerra in Medio Oriente — che dichiara di aver impartito ordini per intensificare la battaglia con Israele. La milizia politica collegata a doppio filo ai Pasdaran “annuncia la transizione verso una nuova e crescente fase nel confronto con il nemico israeliano, che gli eventi dei prossimi giorni mostreranno”.

Hezbollah, come Hamas, è attualmente senza un leader. Israele ha eliminato Hasan Nasrallah, storico predicatore sciita cresciuto nel culto khomeinista, formidabile nella sua capacità di attrarre proseliti e creare un tessuto socio-culturale attorno all’organizzazione che guidava (non solo spiritualmente). Anche il suo successore, da anni designato, è stato ucciso poco dopo di lui. Ma Hezbollah combatte comunque, proprio perché l’organizzazione rappresenta un’ideologia, e l’ideologia si è organizzata militarmente, culturalmente, socialmente ed economicamente. Lo stesso vale per Hamas, che soffre la morte di un leader simbolico per questa fase guerresca, ma ha già sofferto in questi mesi l’uccisione, da parte di Israele, di altre due grandi figure iconiche della resistenza palestinese: Mohammed Deif e Ismail Haniyeh.

La perdita dei simboli è dunque un elemento determinante per disintegrare certe organizzazioni, oppure le organizzazioni sono preparate a questo “rischio d’impresa”, pronte a sostituzioni di ogni ingranaggio della gerarchia e preparate per gestire le perdite in modo da capitalizzarle in termini di proselitismo e volontà di combattere? Qui, mentre il mondo arabo osserva evoluzioni delicate, la questione si sposta anche sull’Iran. I Paesi sunniti del Golfo attendono gli sviluppi di questa ulteriore scossa sismica, consapevoli che Israele — con cui mantengono vivi i contatti, anche grazie alla formalizzazione degli Accordi di Abramo, da cui è difficile tornare indietro visto l’imprimatur statunitense — ha ormai infranto le linee rosse che delimitavano la deterrenza su cui si basava l’architettura di sicurezza regionale.

E in questo “ormai vale tutto” di una guerra estesa alla regione, per Teheran la sfida torna sul simbolo. Hamas, come Hezbollah, era parte di quella deterrenza saltata dopo gli attacchi e contrattacchi con Israele. Ora, con Israele che non intende lasciare impunito il raid subito il primo di ottobre, per la Repubblica Islamica la morte del leader palestinese rappresenta un ulteriore indebolimento della sua influenza in Medio Oriente. Influenza soprattutto muscolare, acida, legata appunto alle milizie sciite che compongono l’Asse della Resistenza, dal Libano a Gaza fino allo Yemen.

Mentre i simboli palestinesi e libanesi cadono, gli Houthi yemeniti — attivati per interessi propri e del dante causa iraniano dopo il 7 ottobre — hanno subito in questi giorni uno dei colpi più duri dell’anno. Gli americani hanno bombardato a tappeto postazioni militari da cui le armi iraniane presenti in Yemen vengono usate contro le rotte indo-mediterranee che compongono la geoeconomia globale. Con una mossa altrettanto simbolica, il Pentagono ha mobilitato B-2 Spirits, bombardieri strategici con capacità nucleare, l’arma più avanzata a disposizione degli Stati Uniti, per colpire i miliziani che attaccano i cargo che attraversano le rotte del Mar Rosso tra Europa e Asia. Una prova di forza clamorosa, che dimostra la “capacità di attacco globale per raggiungere questi obiettivi, quando necessario, sempre e ovunque”, ha dichiarato il Pentagono, in una chiara dimostrazione di volontà nella ricostruzione della deterrenza.

Cosa aspettarsi adesso

Militarmente, Israele sembrerebbe in vantaggio, ma iniziano a calare le riserve di armamenti (e aumentano i rischi di sospensione delle spedizioni occidentali se la guerra si inasprisce ancora, sebbene dovesse essere uno scontro aperto contro l’Iran la questione della sospensione uscirà dalle discussioni). L’Iran potrebbe vedere l’assassinio di un altro leader prominente della Resistenza come una giustificazione per un’escalation. Tuttavia, dovrà anche considerare i rischi strategici, in particolare l’eventualità di coinvolgere gli Stati Uniti, il che potrebbe compromettere i suoi interessi a lungo termine. È in gioco la ricostruzione della deterrenza, quella su cui il day-after di Gaza poggerà la nuova architettura di sicurezza per una regione in cui la sicurezza è tutto. Per questo il momento è delicato.

Secondo il Soufan Center, occorre ripensare il conflitto a Gaza dopo la morte di Sinwar. Gli scenari ipotizzati comprendono un possibile decentramento di Hamas, con il rischio di una radicalizzazione interna, e un’escalation del conflitto con Hezbollah e l’Iran, che potrebbero intensificare le ostilità per recuperare legittimità regionale. Parallelamente, si prevede la possibilità di negoziati diplomatici per la liberazione degli ostaggi, mentre Israele potrebbe espandere gli insediamenti a Gaza.

Mike Allen, in uno dei suoi focus quotidiani per i lettori della sua newsletter, ipotizza che la morte di Yahya Sinwar possa aprire la strada ai negoziati per la liberazione dei 101 ostaggi ancora detenuti da Hamas e per stabilire un cessate il fuoco a Gaza (questa considerazione si basa su informazioni raccolte da Axios tra funzionari israeliani e statunitensi). L’eliminazione offre infatti a Netanyahu una “victory picture” che potrebbe permettergli di muoversi verso un accordo — e il commento citato in apertura sembra confermare questa direzione.

A differenza di Sinwar, altri leader di Hamas potrebbero essere più inclini a negoziare o ad accettare l’esilio per porre fine alla guerra, magari solo temporaneamente. Tuttavia, anche se un successore dovesse essere più aperto al dialogo, l’ideologia di Hamas potrebbe rimanere fortemente guerresca, aggravata dalla distruzione prodotta dall’ultimo conflitto.



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