Durante i sette anni che l’Italia ha per far rimettere il debito sotto i vincoli del nuovo Patto di stabilità, il Parlamento potrà operare solo all’interno dei limiti predefiniti. Con una compressione delle prerogative parlamentari. Giustificabile solo se il nuovo sistema sarà in grado di garantire maggiore crescita economica, accompagnata da un più elevato benessere generalizzato ed una più forte stabilità finanziaria. Cose che al momento sono di là dal venire. Nulla, ovviamente, è ancora perduto. Ma il tempo stringe. E le forze politiche italiane sono ancora lontane dall’averne consapevolezza
Con ogni probabilità nemmeno la pubblicazione dell’articolo 47 della nuova legge di bilancio fermerà le polemiche. Grazie ad esso gli stanziamenti a favore del servizio sanitario nazionale aumenteranno da un minimo di 1.302 milioni per il prossimo anno, ad un massimo di 8.898 a partire dal 2030. Un investimento destinato a divenire permanente. Sennonché anche in concomitanza di quest’evento, l’opposizione tutta – da Carlo Calenda a Giuseppe Conte – non ha potuto fare a meno di ripetere il suo mantra contro Via XX Settembre.
Le accuse? I pochi soldi stanziati per una sanità ormai alla frutta. Liste d’attesa lunghe chilometri. Carenza di personale: d’ogni ordine e grado. Strutture fatiscenti. Una situazione indubbiamente difficile e poco sostenibile. Ma figlia di una degenerazione recente? Questo il quesito senza risposta, che toglie molto mordente alle critiche più pugnaci. Ricostruire la serie storica più recente è operazione piuttosto complicata. Siamo partiti dai dati del Def 2024 e li abbiamo aggiornati con le disposizioni di cui si diceva all’inizio. I risultati definitivi smentiscono i profeti di sventura. Senza per altro considerare le somme aggiuntive del Pnrr. Da qui al 2027 la spesa sanitaria aumenterà seppure di poco recuperando le perdite che si erano prodotte nel 2023, quando il calo era stato pari allo 0,7 per cento.
Per quanto riguarda invece la parte di Prodotto lordo interno destinato allo scopo, siamo nell’ordine del 6,4 per cento l’anno. Le critiche, che pure sono state avanzate circa la mancata contabilizzazione del tasso di inflazione, sono solo frutto di un grossolano errore. Il rapporto è tra la spesa sanitaria, che risulta dai documenti di bilancio ed il Pil nominale, che, a sua volta, incorpora i livelli di inflazione. In alcuni anni questo rapporto è stato maggiore. Come nel triennio 2020/2022, ma si è trattato di anni eccezionali, dominati dal Covid e da un andamento altalenante del Pil, che non aveva trovato riscontro nei decenni precedenti. Certo le distanze, rispetto alla proposta di legge Schlein di portare il tetto al 7,5 per ceno del Pil, sono siderali. Ma è sul grado di realismo di una simile proposta che bisogna interrogarsi.
Non è quindi questo il terreno su cui ragionare. Semplici baruffe politiche, dalle finalità scontate. Esse rischiano, tuttavia, di nascondere i problemi più veri di questa manovra. Il cui tallone d’Achille è dato, purtroppo, da un tasso di crescita del tutto insufficiente. La vera variabile indipendente che poi condiziona qualsiasi possibile scelta. E di cui gli stessi limiti quantitativi della spesa sanitaria sono un’immediata derivata.
La spiegazione è semplice. Dal tasso di sviluppo dell’economia dipende, innanzitutto, il volume delle risorse a disposizione della manovra. Le entrate fiscali, infatti, aumentano con il crescere del Pil: sia che si tratti dell’Irpef e delle altre imposte dirette, sia che ci si riferisca all’Iva o alle altre imposte indirette. A loro volta queste maggiori entrate consentono di avere una maggiore spesa netta, secondo le nuove regole del Patto di stabilità. C’è poi un effetto meccanico, dovuto al rapporto che riguarda sia l’andamento del disavanzo di bilancio che del debito. La crescita del denominatore ne contiene il valore, contribuendo per questa via a migliorare l’intera situazione complessiva. Si pensi agli spread e di conseguenza alla spesa per interessi. Infine, last but not least, la crescita dell’occupazione, che ne deriva, contribuisce a far risparmiare sugli ammortizzatori sociali. Offrendo ai singoli lavoratori un’occasione di maggior riscatto.
Ecco allora perché la crescita dovrebbe essere la preoccupazione principale ed al tempo stesso guidare gli sforzi necessari per spingere al massimo. Con un occhio puntato sul tema della giusta redistribuzione del surplus così prodotto: sia esso dovuto a guadagni di produttività, al maggior impiego di capitale o alla produttività totale dei fattori. Fenomeni intrecciati. Le aspettative degli uni, incidono su quelle degli altri. Ed il loro reciproco rapporto alimenta quel clima, che rende tutto più facile. Contro le angustie e le incertezze del momento.
Purtroppo le previsioni del ministero dell’Economia, che sono alla base della manovra, peccano di ottimismo. A discolpa si può dire ch’era difficile prevedere la relativa gelata del secondo trimestre di quest’anno, quando l’Istat è stata costretta a rivedere a ribasso il tasso di crescita stimato in precedenza. Comunque sia, esso comporterà, un ridimensionamento dell’intera proiezione. Che all’origine indicava per il periodo 2023/2029 un tasso di crescita medio annuo dello 0,9 per cento. Fosse stato così sarebbe stato pari ad una volta e mezza il tasso di crescita del periodo 2013/2019: anni non certo esaltanti per la società italiana.
Nel valutare questa prospettiva si deve, tuttavia, tener conto del Pnrr. Grazie all’impegno della Ue, secondo le previsioni formulate a suo tempo dal Governo, le maggiori risorse così ottenute avrebbero dovuto contribuire a determinare, per il periodo 2023/2026, una maggior crescita del Pil di 3,6 punti percentuali. Che, ripartiti per il periodo di vigenza del piano, avrebbero dovuto comportare un incremento del ritmo di crescita di circa 1 punto percentuale. Fossero veri questi elementi, ci troveremmo pertanto di fronte ad un encefalogramma quasi piatto. Con un tasso di crescita costruito solo grazie alla presenza di quei finanziamenti aggiuntivi e fuori dal Patto di stabilità. Con la controindicazione che 122,6 miliardi di euro, pari a più del 6 per cento del Pil, ottenuti sotto forma di prestiti, andranno comunque restituiti. A carico, nei prossimi anni, delle finanze pubbliche italiane.
Si deve solo aggiungere che, la maggior parte delle previsioni da parte di istituzioni ed enti indipendenti sono molto meno rosee. A partire da quelle della Banca d’Italia, ribadite dal capo del Dipartimento Economia e Statistica, nella sua recente audizione sul Piano strutturale di bilancio. Per l’anno in corso e per quello successivo il Consensus Economics vede rispettivamente un calo di 0,2 e 0,3 punti rispetto alle stime del Mef. Per avere una previsione più ampia che abbracci lo stesso periodo indicato dal governo (2024/2029) è necessario, invece, ricorre alle stime del Fmi. Una previsione media di crescita annua pari allo 0,6 per cento, contro lo 0,9 precedentemente indicato.
Quindi, senza facili ottimismi, è necessario riconoscere che la situazione italiana rimane difficile. Non è la stagnazione secolare evocata dagli economisti americani, ma qualcosa che gli si avvicina pericolosamente e che rischia, come ribadito in questi giorni dal Fmi per bocca del suo capo divisione del Dipartimento Affari Fiscali, di rendere troppo lento il percorso di riduzione del debito. A tutto ciò si potrebbe obiettare che non è compito dello Stato far crescere l’economia. Onere da far ricadere sulle spalle dei privati. Puro liberismo d’antan. Ma basta rileggere il documento Draghi per avere contezza di quanto labile sia stata questa teoria.
La strategia di Lisbona, agli inizi del terzo millennio, voleva trasformare l’Unione nella area più produttiva del mondo, nel contesto di una “nuova economia” basata sulla conoscenza e sull’investimento in capitale umano. Pochi anni dopo non restava che constatarne il completo fallimento. Ripercorrere oggi la stessa strada sarebbe un doppio scorno. Misurato il primo sulla modestia dei risultati. Il secondo alla luce delle nuove regole europee, che impongono ai Paesi membri una programmazione di lungo periodo, destinata a coincidere con il tempo della legislatura. Andando anche oltre, come nel caso della scelta italiana di un arco temporale di sette anni.
Durante questo periodo il Parlamento potrà operare solo all’interno dei limiti predefiniti: segnati dal tasso di crescita di una spesa primaria netta concordata per l’intero periodo. Difficile non vedere, in questo schema, una compressione delle prerogative parlamentari. Giustificabile solo se il nuovo sistema sarà in grado di garantire maggiore crescita economica, accompagnata da un più elevato benessere generalizzato ed una più forte stabilità finanziaria. Cose che al momento sono di là dal venire. Nulla, ovviamente, è ancora perduto. Ma il tempo stringe. E le forze politiche italiane sono ancora lontane dall’averne consapevolezza.